Benvenuti, questo è il secondo numero extra di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
Gli EXTRA sono i numeri speciali, a cadenza irregolare, riservati agli abbonati annuali o mensili che hanno deciso di sostenere il nostro progetto. Il prossimo numero “classico” di MEDUSA arriverà invece, come da calendario, mercoledì.
Dal momento che il nostro archivio è ormai smembrato e disperso nei recessi hauntologici della vecchia piattaforma newsletter e del vecchio sito, useremo ogni tanto questo spazio EXTRA anche per riscrivere e rispolverare un po’ di materiale non più reperibile.
Oggi vogliamo condividere con voi un remix di testi che abbiamo dedicato negli anni alla Russia: sono pezzi di MEDUSE, di vecchi e nuovi CUBETTI, e alcuni frammenti finiti nel libro.
Ovviamente ne scriviamo a modo nostro, mescolando scrittori sovietici morti giovani a bombe di metano nascoste sotto i prati, tra indovinelli e dichiarazioni di Putin, come: “le ragioni [dell’emergenza climatica] potrebbero essere globali, per esempio qualche trasformazione cosmica che non possiamo neanche vedere, in questa galassia”. Il negazionismo non discrimina.
Mentre nell’URSS si scrivono libri come Il Messia di ferro di Kirillov, i nostri nonni leggono sui muri: è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende. Motto fascista che ci fa venire in mente Luigi Meneghello, quando nei Fiori italiani racconta la sua adolescenza di balilla ideale, i suoi temi scolastici, impeccabili. Nel libro Meneghello, dissociato dal passato, si descrive in terza persona:
Egli [divise il tema] in due parti, una dottrinale in cui mostrava di aderire senza riserve alla veduta che è certamente l’aratro, non la spada, che traccia il solco, mentre non è affatto l’aratro, ma la spada, che lo difende; e l’altra in cui lodava molto l’aratro per ciò che faceva al solco e la spada per ciò che gli faceva lei. Gli sfuggì completamente che in questa prospettiva il solco diventava una specie di bene supremo, e non terminò con «W il Solco!» come sarebbe stato coerente di fare.
Dal solco nasce la civiltà; viva il solco, abbasso il solco.
Ma qual era il rapporto tra l’URSS e il Solco? A cent’anni dalla rivoluzione russa, nel 2017 Nicolò ha intervistato per il Tascabile Serena Vitale, slavista e scrittrice: è stato impossibile parlare di letteratura sovietica ignorando il rapporto tra cultura e natura – o meglio, la violenza della prima a danni della seconda (in questa sede, le distingueremo per gioco).
Dell’intervista ci ha colpito la passione di Vitale per la poesia contadina. Abbiamo parlato dei suoi più grandi esponenti post-rivoluzionari, entrambi di origine contadina: Esenin – “un grandissimo, [dilaniato tra Mosca e] la campagna di cui cantava, ormai distrutta” – e Kljuev, il suo preferito. Kljuev viene inizialmente sedotto da un potere bolscevico affascinato dalla “naturale carica eretica” di questa poesia, una poesia che si abbevera dalla fede popolare, dalle sue infinite sette. Secondo Ettore Lo Gatto, un’istituzione nella slavistica, si trattò di un corteggiamento ricambiato, dato che entrambi i poeti “credettero sinceramente […] nella rivoluzione come movimento primordiale delle masse contadine”. Nonostante lo stesso Lenin pensasse di potere trasformare la loro intensità in energia spirituale a basso consumo, nel giro di un decennio qualsiasi corrente viene drenata, dal Cremlino fino alla fonte. Esenin si uccide nel 1925, Kljuev viene ucciso nel 1937.
Kljuev a ventisette anni scriveva cose come:
Noi amiamo soltanto ciò che non ha nome, ciò che come una leggera allusione ci tortura col suo mistero.
Si amava quello che oggi si rifiuta; l’innominabile attuale, l’Iperoggetto. Parole che in lui sbocciavano dalle radici piantate in una famiglia di Vecchi Credenti rimasta a Koshtugi, lontano…