Euro, globalizzazione, tech Sinistra Attenta a quei tre.

 

Ecco i fattori che hanno indebolito i partiti progressisti in Europa Se in Italia vogliono ritrovare slancio devono rifiutare il fiscal compact e continuare ad appoggiare l’Unione solo a patto di una radicale riforma.
Il Belpaese ha visto la stagnazione dei salari e la scomparsa del lavoro dopo l’allargamento a Est della Ue.
Come le famiglie infelici di Tolstoj, tutti i partiti di centrosinistra in Europa appaiono oggi angosciati, ognuno a modo suo. Il tracollo di quello francese rappresenta forse il caso più estremo, essendo passato da partito presidenziale a uno sparuto manipolo di minoranza nell’arco di pochi mesi. Il declino del Partito Democratico, dalle elezioni europee del 2014 ad oggi, è stato invece più graduale, ma non meno significativo. In ciascun caso, pesano le storie personali. Ma si è messa in moto una dinamica strisciante che erode il centrosinistra in ogni angolo della zona euro.  A mio avviso, tre sono i fattori specifici che contribuiscono a questo slittamento. Il primo è la globalizzazione, che è cresciuta di pari passo con l’allargamento dell’Ue. Il centrosinistra è la prima vittima proprio perché gli elettori di reddito medio-basso sono stati i primi a rimetterci. L’immigrazione ha scatenato la concorrenza per i posti di lavoro e il libero spostamento dei capitali ha fatto calare le entrate fiscali dei governi, e pertanto i loro spazi di manovra, mantenendo i salari industriali più bassi delle aspettative. La globalizzazione ha distrutto il rapporto tra crescita economica e stabilità politica. In passato, i partiti si assicuravano il potere mediante scelte politiche che rafforzavano Pil e occupazione. Ma in tempi di estrema disuguaglianza retributiva, queste misure aggregate perdono ogni significato. In Italia si sono viste sia la stagnazione dei salari industriali che la scomparsa dei posti di lavoro per la delocalizzazione delle imprese subito dopo l’ingresso nell’Ue degli stati dell’Europa centrale e orientale, cui è andata ad aggiungersi la progressiva apertura commerciale alla Cina. Il secondo motivo del declino è da ricercarsi nell’euro. La moneta unica è stata un disastro per i partiti di centrosinistra in tutti i paesi dell’area euro perché ha di fatto neutralizzato molti strumenti macroeconomici fino ad allora disponibili. Primo tra tutti, l’unità monetaria ha sancito l’impossibilità di svalutare. Senza la svalutazione del 1992, l’economia italiana non sarebbe stata in grado di stabilizzarsi negli anni successivi. L’euro ha inoltre messo fine a ogni forma di politica fiscale discrezionale, lasciando solo un piccolissimo margine di manovra, specie nei Paesi con un debito pubblico molto elevato, come l’Italia. L’unico strumento disponibile sono le riforme strutturali, ma queste danno risultati solo a medio e lungo raggio, e sono politicamente molto onerose per i partiti di centrosinistra. La riforma del mercato del lavoro in un periodo di crescente immigrazione si è rivelata particolarmente tossica, e spiega il declino della Spd tedesca. Il terzo fattore è la tecnologia. La nascita dell’intelligenza artificiale e dei robot sta portando alla scomparsa di tanti posti di lavoro un tempo considerati sicuri e insostituibili. In Germania, la base elettorale della Spd è da sempre composta dalla forza lavoro impiegata nell’industria manufatturiera. Ma questa base è stata progressivamente erosa, di pari passo con il declino del lavoro industriale come percentuale dell’occupazione totale. I sindacati hanno svolto un ruolo importante nel fornire un sostegno stabile ai partiti del centrosinistra, ma anche loro sono in declino. Il terziario moderno è molto meno sindacalizzato. I lavoratori nel settore dei servizi, persino quelli con retribuzioni molto basse, non si riconoscono nei partiti di centrosinistra. Se i partiti di centrosinistra avessero solo la globalizzazione e la tecnologia da affrontare, si troverebbero in una posizione migliore. Sarebbe più facile per loro compensare coloro che hanno perso posizioni a causa della globalizzazione, oppure creare nuove opportunità di formazione. Ma l’adesione alla zona euro ha ridotto lo spazio di manovra fiscale, rendendo così più arduo il compito di reagire agli scossoni economici. E l’integrazione europea ostacola la risposta alla globalizzazione. La capacità di reazione a tutti questi fattori contemporaneamente risulta impossibile, persino per un supereroe della politica come Matteo Renzi. Non sta a me giudicare il suo stile di leadership, ma dubito che la vecchia guardia della sinistra italiana avrebbe potuto fare molto di più. Sono convinto che l’Italia avrebbe dovuto respingere il trattato sul meccanismo di stabilità, o per lo meno insistere affinché i contributi non entrassero nel computo del deficit fiscale. L’Italia inoltre non avrebbe mai dovuto sottoscrivere la direttiva sulla ristrutturazione delle banche, che ha innescato i problemi attuali nel settore finanziario. Questi erano errori che si potevano evitare, e sono andati a sommarsi alle limitazioni imposte dall’integrazione nella zona euro. Se il centrosinistra, in Italia come altrove, vorrà ritrovare un nuovo slancio – senza però abbandonare l’unione monetaria – come minimo dovrà sfidare la struttura di gestione della zona euro, rifiutando innanzitutto il fiscal compact, per poi esigere la creazione di titoli governativi dell’eurozona. E dovrà continuare ad appoggiare l’unione monetaria solo a condizione di una riforma della stessa, se non vuole avviarsi definitivamente sul viale del tramonto.
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Corriere L’Economia.

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