Intorno al 400 d.C., una grandiosa processione si snodò verso il Foro dell’Urbs, dove la folla si era idealmente unita a fantasmi della storia quali Catone, Gracco, Cicerone e Cesare, per ascoltare il panegirico del poeta Claudiano in onore di Flavio Stilicone. Console di origine vandala, quest’ultimo si era recato nell’ormai «desueta» capitale dell’impero assieme al giovane Onorio, di cui era protettore, nel tentativo di ricomporre quella frattura tra Oriente e Occidente che all’indomani della morte di Teodosio I nel 395 sembrava inesorabile «come la deriva dei continenti».
Prende avvio da questo episodio Il destino di Roma, appassionante saggio di Kyle Harper, che nel sottotitolo fornisce le chiavi della trattazione: «clima, epidemie e la fine di un impero» (Einaudi «La Biblioteca», pp. 508, e 34,00). Solo dieci anni dopo il discorso di Claudiano e il memorabile «serraglio» esotico offerto da Stilicone al popolo nell’illusione di perpetuare il dominio «globalizzato» di Roma sulla natura e sugli uomini, il Caput mundi fu saccheggiato da un esercito di Goti, massicciamente penetrati nell’impero in seguito alla battaglia di Adrianopoli del 378. Secondo il celebre giudizio di Edward Gibbon, la decadenza di Roma era «il naturale e inevitabile effetto della sua smoderata grandezza». Harper, pur considerando valido l’assunto, è persuaso che – al contrario di ciò che si voleva manifestare col sanguinoso rituale delle venationes – la caduta dell’impero rappresentò il trionfo della natura sulle ambizioni umane. Il destino di Roma, afferma lo studioso dell’Università dell’Oklahoma, «fu portato a compimento da imperatori e barbari, senatori e generali, soldati e schiavi, ma venne parimenti deciso da batteri e virus, eruzioni vulcaniche e cicli solari». Alle consolidate teorie che spiegano la caduta di Roma con l’implosione dei suoi meccanismi di potere e le spinte esercitate da genti bramose di sogni alle frontiere, Harper associa i dati oggi desumibili dagli «archivi naturali» ovvero nuclei di ghiaccio, depositi sotterranei e lacustri, sedimenti marini che «registrano» i cambiamenti climatici. Inoltre, la chimica degli isotopi delle ossa e dei denti, attraverso la quale è possibile evidenziare le tracce di regimi alimentari e flussi migratori, viene ritenuta dall’autore un valido strumento di indagine storica congiuntamente al sequenziamento del Dna antico ricavato dai contesti archeologici, che permette di risalire alla più remota realtà microbica.
Clima caldo-umido e supremazia agricola
Sulla scia delle recenti acquisizioni scientifiche e tecnologiche, Harper vuole dimostrare che i sistemi fisici e biologici della Terra rappresentano uno scenario incessantemente mutevole. Per l’autore, i romani ebbero una «fortuna sfacciata» poiché portarono a compimento le grandi conquiste territoriali in una fase del tardo-Olocene denominata Optimum climatico romano (200 a.C. – 150 d.C.): un clima caldo, umido e stabile favorì la nascita di una supremazia agricola, che – unita al commercio e alla tecnologia – determinò l’efflorescenza dell’impero. Ma, dopo un periodo di scompiglio che Harper definisce Periodo romano di transizione (150 d.C. – 450 d.C.), l’instabilità del clima mise alle strette le riserve energetiche, interferendo in maniera drammatica con il corso degli eventi. Sul declinare del V secolo d.C., una frenetica riorganizzazione climatica culminerà nella Piccola glaciazione della Tarda Antichità (450 d.C. – 700 d.C.) mentre l’attività vulcanica degli anni Trenta e Quaranta del VI secolo d.C. innescherà il periodo più freddo di tutto il Tardo Olocene.
Il deterioramento del clima coincise con una catastrofe biologica che travolse un territorio ormai in rovina. Nel 541 – durante il regno di Giustiniano – scoppiò la prima fatale pandemia causata dalla Yersinia pestis, il batterio portatore della peste bubbonica, che perdurò per circa duecento anni. È da ricordare che nel 165 d.C. l’impero era già stato scosso dalla «peste antonina», un’epidemia probabilmente causata dal vaiolo, che interruppe l’espansione economica e demografica senza tuttavia condurre alla disintegrazione. È invece a metà del III secolo che siccità, pestilenze (tra tutte la cosiddetta «peste di Cipriano», arrivata dall’Etiopia) e disordine politico causarono secondo Harper la prima caduta dell’impero, poi ricostruito su un nuovo «modello» di imperatore che traeva forza dall’esercito. Tra gli sgoccioli del IV e gli inizi del V secolo, le pressioni delle steppe euroasiatiche spezzarono definitivamente la coesione del rinato impero, fino alla resa della metà occidentale. A Oriente, una rinnovata prosperità dovette confrontarsi col doppio colpo inferto dalla peste bubbonica e della Piccola glaciazione. Ciò che restava dell’impero romano si ridusse allo stato bizantino, i cui sopravvissuti si ritrovarono in un mondo scarsamente abitato (l’autore parla di shock demografico), impoverito e stretto tra religioni apocalittiche in perenne contrasto, inclusi il Cristianesimo e l’Islam. Pur non rinnegando le cause «umane» del crollo di Roma – che approfondisce in sette densissimi (e a tratti un po’ dispersivi) capitoli nonché in un copioso apparato di note e segnalazioni bibliografiche, Harper ribadisce il peso – oggi fortemente d’attualità – del clima sulla salvezza delle società antiche. Una teoria certamente in fieri e il cui metodo necessita di conferme ma che nondimeno si pone come interessante elemento di dibattito scientifico nelle impolverate e spesso eccessivamente rigide «scaffalature» della storia romana.
Della fine dell’impero romano discetta anche William V. Harris (Il potere di Roma Dieci secoli di impero, Carocci editore, pp. 425, e 29,00) che pur confezionando un libro prettamente accademico aspira a raggiungere un pubblico di non specialisti. Ciò a cui punta l’autore è innanzitutto un confronto tra i romani delle diverse epoche, quelli che costruirono l’impero e quelli che lo persero. I sette capitoli in cui è diviso il volume si collocano in una forbice cronologica che va dal 400 a.C. al 641 d.C., e analizzano la longevità di un impero che durò più a lungo di qualunque altro a eccezione della dinastia Han in Cina. Harris, che nel I capitolo si interroga su «l’idea di Roma» e sul concetto di potere – contestando, in modo pretestuoso, agli storici moderni una smisurata adorazione per il potere che li renderebbe riluttanti ad ammettere l’imperialismo del periodo repubblicano –, si concentra soprattutto sull’analisi delle tre dimensioni del potere di Roma: la dimensione nazionale ovvero il predominio del gruppo di coloro che si definivano romani sul resto degli abitanti dell’impero; la dimensione delle classi sociali (senza escludere né le strutture politiche né la schiavitù e allargando il discorso al potere famigliare e a quello di genere), e la discontinuità che si incontra in un lasso di tempo millenario.
641 d.C., non 1453!
Sospinto da una malcelata vanità e dall’ossessione per l’imperialismo americano – che rifiuta di identificare con Roma ma il cui studio ritiene indispensabile per uno storico del potere –, Harris attribuisce alla dissoluzione dell’alleanza fra potere interno ed esterno il crollo dei due imperi, prima quello d’Occidente e poi, nel 641 d.C. (e non nel 1453 con la caduta di Costantinopoli), quello d’Oriente. Per lo studioso della Columbia University sono le falle nella difesa dei confini e i conflitti etnico-religiosi in seno alle milizie romane ad aver decretato lo sfascio dell’impero occidentale nel 476 d.C. La tensione tra i fattori materiali (intesi come mancanza delle risorse economiche) e psicologici sarebbe anche alla base della crisi nella superstite area orientale, collassata per l’incapacità dell’esercito e le profonde divisioni di carattere spirituale tra gli stessi cristiani.