Ritratti dell’industria in carne e lamiere

 

di Anna Gandolfi

Occupa un terzo (almeno) dell’esistenza di ogni individuo. Ha forme, intensità e ispirazioni diverse. Può essere amato, odiato, cercato o perduto, offerto o sottratto, ambito o scansato, punto di arrivo oppure di partenza. «È il lavoro e abita le nostre vite». Partendo da qui Urs Stahel ha costruito un affresco dedicato all’operosità umana.

Consulente della collezione fotografica della Fondazione Mast, Stahel ha selezionato per una mostra speciale 500 tra scatti, album e video dal patrimonio dell’istituzione con base a Bologna che, grazie a oltre seimila documenti, è riferimento internazionale per l’iconografia dell’industria. Accanto a opere di Man Ray, Dorothea Lange, Henri Cartier-Bresson, Gabriele Basilico, Margaret Bourke-White e Brian Griffin (tra gli altri) l’archivio conserva quelle degli anonymous, autori sconosciuti, spesso tecnici delle aziende immortalate. «Immaginiamo una fabbrica: quando viene ritratta su commissione — racconta Stahel a “la Lettura” — sarà linda, bella, luminosa. Quando, magari anni dopo, magari con un drone, entra nell’obbiettivo di un documentarista, emergeranno angoli sporchi, aspetti critici in cui gli operai devono muoversi». Contrasto che è parte di The Mast Collection. Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia.

In pubblico arriva un corpus massiccio (la Fondazione fa riferimento al gruppo Coesia e, da 20 anni, arricchisce un archivio nato ai primi del Novecento) assemblato seguendo un filo rosso di lettere e parole: 53 focus, per altrettanti concetti, vanno dalla A di Abandoned (abbandonato, come molti spazi) alla W di Waste (quanti sprechi), passando per Energy, Office, Protest… «I capitoli — ricorda Stahel, che cura l’esposizione e firma il saggio introduttivo con la presidente della Fondazione, Isabella Seràgnoli — rappresentano altrettante isole tematiche nelle quali convivono vecchi e giovani, ricchi e poveri, aree produttive e villaggi, includendo 250 e più professioni». Il percorso parte dal XIX secolo e ha mille sfaccettature, anche tecniche: la stampa all’albume, gran novità ottocentesca, sta gomito a gomito con i pixel dell’altissima risoluzione di oggi.

Dietro alle immagini ci sono volti e storie. «Alcune — prosegue il curatore — sono famosissime. Migrant Mother di Dorothea Lange è forse una delle dieci immagini più celebri al mondo. Ritrae una donna con i suoi figli (si dice che il padre fosse a cercare lavoro e che avesse venduto le ruote dell’auto per mantenere la prole). Siamo a San Francisco, è il 1936». In America imperversa la Grande depressione. Si mandano i fotoreporter, come Lange ingaggiata dalla Farm Security Administration, a documentare le condizioni e le sfortune dei braccianti. «Il ritratto ha avuto una forte, enorme influenza, contribuendo alla decisione di devolvere aiuti a queste persone». Ma in realtà «alla famiglia immortalata non piaceva». La madre si vedeva troppo cupa.

Da un volto iconico a un personaggio finito nell’oblio come Josef Ganz, «il padre del prototipo che precede la Volkswagen Beetle». L’artista svizzero Rémy Markowitsch gli dedica una video-ricerca: «Il modello Beetle era stato ordinato da Hitler, Porsche lo realizza. In realtà, però, una piccola auto molto simile era già stata costruita dall’ingegnere ebreo Ganz, costretto a lasciare la Germania per la Svizzera a causa della persecuzione nazista. Il fatto non è mai stato riconosciuto. Ganz è morto in Australia, poverissimo. Il video raccoglie i suoi progetti: vuole restituirne memoria».

La carrellata della Fondazione Mast include anche tanti altri grandi nomi. Come Gianni Berengo Gardin, che punta l’obbiettivo sulla Olivetti di Ivrea, sulla Ducati di Roma, sull’Ansaldo di Genova tenendo i macchinari sullo sfondo (la tesi: sono semplici mezzi per giungere a un prodotto orgogliosamente ben fatto). Oppure Gabriele Basilico, che coglie le fabbriche milanesi baciate dalla luce della Pasqua 1978 e ricorda «come, spostandomi di zona in zona, pianta alla mano, per la prima volta ho “visto” le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu». Ci sono stampe di Henri Cartier-Bresson: scorci catturati quando, catapultato a Pechino e Shanghai tra 1948 e 1949 per un reportage sulla caduta del governo nazionalista, cristallizza il panico per il crollo del mercato e la folla accalcata all’ingresso delle banche. E, ancora, in mostra c’è un’opera della celeberrima serie Électricité (1931) di Man Ray: utilizzando lampadine e luce elettrica, l’autore proietta ombre di oggetti in fase di sviluppo, aggiungendo tracce di cavi e ritraendo così, a suo modo, il progresso.

Particolarissime le prove di Brian Griffin, uno dei fotografi britannici più influenti grazie allo stile poi definito «realismo capitalista»: trasforma in ribalta le fabbriche e in attori (anche bizzarri) i lavoratori, puntando l’attenzione su dettagli apparentemente secondari come i capelli o le mani sporche di un’operaia. Lui stesso sentenzia: «Non mi sono mai preoccupato di immortalare i famosi (benché lo faccia, ndr) e non mi sento colpito dalle star. Il mio interesse è altrove».

Invitando a cominciare il viaggio tra le immagini allestite a Bologna, Stahel cita l’artista Allan Sekula, scomparso nel 2013: «Una collezione inizia a parlare solo quando noi le poniamo una o più domande. Diversamente è ridotta a un doloroso, evidente mutismo». La fotografia, però, ha un asso da giocare: «A differenza del linguaggio — conclude — non ha una struttura del tutto chiara, non dispone di grammatica e sintassi univoca. L’immagine lascia naturalmente interrogativi aperti: perché è stata scattata? Cosa resta fuori dall’inquadratura? Cos’è centrale? Ogni stampa può raccontare una storia che agli occhi di ognuno assume sfumature diverse. La collezione, così, è viva». E capace di parlare al suo pubblico.

 

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