Emissioni velenose, incidenti e persino la reale natura dei rifiuti. Tutto veniva insabbiato nel Centro Oli dell’Eni di Viggiano, in Basilicata. Eppure secondo il pm Laura Triassi, tutti sapevano. Dirigenti dell’Eni, ditte appaltatrici e persino i vertici delle agenzie lucane di protezione ambientali. Nella sua lunga requisitoria il pm Triassi ha chiesto 35 condanne tra i sei mesi e 4 anni e mezzo di carcere. Ma al di là dei numeri finali, il quadro descritto dall’accusa dipinge una situazione particolarmente drammatica: le intercettazioni e le indagini svolte dai carabinieri del Noe tracciano uno scenario di negazione della verità non solo alle comunità che vivono intorno all’impianto petrolifero, ma anche alle autorità pubbliche che su quell’impianto avrebbero dovuto vigilare.

L’inchiesta era partita dagli odori molesti denunciati nella zona di Pisticci dove opera il “Tecnoparco” che smaltiva i reflui di produzione di Eni Spa provenienti da vari luoghi di produzione del centro sud. Da gennaio 2013, però, l’Eni aveva smesso di inviare quei reflui che improvvisamente avevano smesso di essere considerati rifiuti pericolosi. Un’operazione che secondo la procura di Potenza, il management Eni aveva avviato per “un gigantesco abbattimento dei costi”: evitare di trattare le cosiddette “acque di strato” come rifiuti aveva infatti consentito, secondo il calcolo degli inquirenti, un risparmio nel periodo compreso tra settembre 2013 e settembre 2014 del valore compreso tra i 34 e i 76 milioni di euro. Per il pm Triassi, però, quelle sostanze sono rifiuti pericolosi che non potevano essere smaltiti nel modo ideato dall’Eni ed è per questo che nei confronti di diversi imputati è scattata l’accusa di traffico illecito di rifiuti.

Ma nella sua requisitoria, il pm Triassi ha inoltre evidenziato come dalle intercettazioni siano emerse anche le manovre dei vertici aziendali per nascondere le anomalie nelle emissioni di inquinanti nell’aria. Per l’accusa sarebbero state 208 le anomalie nei pochi mesi tra dicembre 2013 e luglio 2014, in particolare legati ai parametri emissivi di sostanze dannose per la salute umana. E soprattutto da quelle conversazioni era chiaro che il vertice del Centro Oli pur essendo al corrente di ogni superamento dei limiti “decideva – afferma il pm – deliberatamente ed in diverse occasioni di comunicare agli organi pubblici di controllo l’avvenuto superamento dei parametri, usando una giustificazione tecnica non corrispondente al vero e diversa da quella (effettiva) utilizzata nelle precedenti comunicazioni”. Tutto, aggiunge il magistrato, per “nascondere molto verosimilmente le reali cause del problema e celare le inefficienze dell’impianto”. Insomma i vertici dell’Eni lucana erano pienamente “consapevoli dei problemi emissivi dell’impianto” e hanno “cercato di ridurre il numero delle comunicazioni di sforamento delle emissioni in atmosfera, mascherando la effettiva e reale causa del ‘malfunzionamento’ o dell’evento scatenante”. Agli enti di controllo, insomma, venivano fornite motivazioni di comodo che in alcuni casi “non era plausibile rispetto al relativo assetto impiantistico”. Il 2 febbraio 2014, ad esempio, dopo un episodio di sforamento dei limiti uno degli imputati, ignaro di essere ascoltato, raccontava al suo interlocutore “ora preparo le comunicazioni e… vediamo con Nicola, ci inventiamo… una motivazione”.

Ma dall’indagine è emerso inoltre come anche sugli incidenti ai lavoratori, i vertici tentassero di nascondere tutto. Il 12 marzo 2014, ad esempio, un lavoratore veniva investito da “H2S”, idrogeno solforato, una sostanza prodotta in occasione della lavorazione del petrolio che è fortemente velenosa e la cui tossicità è paragonabile a quella del cianuro. Poco dopo l’incidente, i vertici Eni, discutono del numero di episodi avvenuti a dipendenti di una ditta del subappalto paventando addirittura di revocare il contratto al prossimo incidente. Non solo. Per quell’incidente, come per altri, l’accusa sostiene che vi sia stata pressione dell’azienda sui lavoratori affinché non si pubblicizzasse l’accaduto. “Le modalità comportamentali, osservate dai tecnici e dirigenti indagati – ha spiegato il Triassi – non sono assolutamente trasparenti e dimostrano, al contrario, un’ostinata pervicacia nel nascondere la reale entità del problema ambientale ed i rischi connessi alla salute dei lavoratori”. Per la procura di Potenza, il loro obiettivo, era – al pari delle emissioni velenose – “celare la causa del malore di cui erano stati vittima i lavoratori, evitando addirittura di aprire la procedura di infortunio sul lavoro”. E infine, il magistrato, diventato nel frattempo procuratore capo di Nola, ha descritto il fenomeno del gas flaring. Si tratta sostanzialmente delle fiamme che costantemente bruciano in cima agli impianti petroliferi che quando è gestito in modo sbagliato genera lo “sfiaccolamento” o “evento torcia”: una fiammata di notevolissima portata (alta anche numerose decine di metri) che libera nell’aria una mole di sostanze emissive pericolosissime e dannose per la salute umana poiché cancerogene. “Benzene, toluene, xilene, e poi metano, anidride solforosa, anidride carbonica, idrogeno solforato, ossidi di azoto, idrocarburi, polveri fini e ultrafini” elenca l’accusa: “Emissioni – aggiunge la procura – che vengono spesso avvertite dalla popolazione che abita i territori limitrofi all’impianto, provocando sulle persone stati di malessere di vario genere fino a causare, in determinate circostanze, il decesso”. Un fenomeno che nel Centro Oli di Viggiano nei mesi tra gennaio 2013 e settembre 2015 si è verificato ben 15 volte. E non sono state poche le segnalazioni e le denunce dei cittadini che hanno accusato “bruciore agli occhi, mal di gola e mal di testa”. Denunce che hanno contribuito all’apertura dell’inchiesta e al processo che ora volge al termine: il prossimo 22 luglio la parola passerà alla difesa e poi i giudici si ritireranno in camera di consiglio per emettere un verdetto e stabilire le responsabilità dei vertici Eni.