Elogio dei grandi maniaci letterari Senza ossessione non c’è creazione.

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di Claudio Magris

Le fissazioni maniacali catturano ma anche difendono, come le mura di una prigione. Possono aiutare a tirare avanti, a non sentirsi sopraffatti e sperduti nel caos del mondo; possono essere una forza centripeta che tiene insieme un’esistenza, impedendole di smarrirsi nell’indistinta dispersione delle cose, stringendola come un pugno, sino a soffocarla e a toglierle il respiro dandole tuttavia una forma, compatta sino alla rigidezza mortuaria ma dura, resistente alle ferite e agli urti che riceve di continuo dalla vita. Alla miseria e alla desolazione familiare — che emergono, tragiche e devastanti, a poco a poco dalle sue lettere — Remiggi oppone il libretto, cui si afferra come altri si afferrano a una fede religiosa o politica e resistono in suo nome a tribolazioni e violenze altrimenti insopportabili.
La mania è anche, forse soprattutto, un meccanismo di difesa, una necessità di potenza e di dominio nata dall’ansia. Meccanismo, meccanismi di difesa, spesso negativi e letali; Kafka ha mostrato quanto sia fatale e colpevole essere, come il protagonista del Processo , condannati a difendersi. Canetti ha mostrato nell’ Autodafé questo terribile irrigidimento. L’Io che ha paura di perdersi si irrigidisce, cerca di essere immobile, immutabile, maniacalmente ripetitivo, in sostanza non vivo, perché teme la vita, che cambia e fa morire l’identità in ogni istante. Cerca di bloccare l’imprevedibile metamorfosi della vita, da cui teme di essere sconvolto, dissolto, distrutto, nel rituale stabilito e rassicurante della ripetizione, nei gesti codificati, nelle abitudini che arginano il fluire tempestoso e distruttivo dell’esistenza e anche il suo indistinto sgocciolio nel nulla. Mania come difesa — difesa ossessiva che distrugge.
In un suo saggio, Canetti ha scritto sul maniacale atteggiamento difensivo una parabola, che parla della costruzione della Muraglia cinese. La Muraglia viene costruita per difendere l’Impero, cioè la vita, dai barbari, dalla distruzione; man mano cresce l’insicurezza, si crede che la Muraglia sia troppo poco forte per respingere gli assalti dei barbari e allora la si rende sempre più grossa, ma la Muraglia non sembra mai grossa abbastanza e così la si allarga di continuo, finché essa finisce per coincidere con tutto il territorio dell’Impero e quindi per schiacciare, per soffocare quella vita in difesa della quale era stata costruita.
L’ Autodafé di Canetti è forse il più grande libro scritto sul delirio maniacale che prosciuga la vita di ogni desiderio — di quel desiderio dell’altro in cui l’Io, nell’eros e in ogni affettività, si protende, si scioglie, vuole diventare anche altro da sé. Di questo amore, che cambia la vita e la persona, l’Io può aver paura, come il dottor Kien di Canetti, perdendosi in questa paura o meglio nella lotta per soffocare questa paura, soffocando così il mondo e se stesso. «Questa verità mente, deve scomparire», esclama Peter Kien; questa verità è la vita nella sua molteplice e mutevole varietà, nei suoi colori e nei suoi inganni, nella sua giostra percepita come un caos distruttore. La mania allora traccia frontiere e rituali, gesti prestabiliti e scanditi secondo modalità, regole e scadenze temporali precise; un labirinto di abitudini, regolamenti, codici e prescrizioni, labirinto in cui nascondersi per non essere raggiunti, per non essere toccati.
Autodafé è un libro terribile, agghiacciante, perché pone dinanzi ad un mondo — oggetti, figure, forme — sul quale non è stata proiettata alcuna libido, bloccata in partenza dalla mania; sul quale non si è posato alcuno sguardo umano. Gli oggetti, pure quelli a noi estranei, sui quali si posa il nostro sguardo, sono talora caldi, impregnati del vissuto di chi li ha usati, toccati, spolverati, forse anche solo guardati. Pur da noi lontani, perché non sono quelli del nostro quotidiano, ci fanno sentire la comune umanità di chi li ha presi in mano, lasciando tracce del proprio sudore e del proprio odore, labili e fugaci ma calde tracce del passaggio di sconosciuti fratelli. Il mondo in cui si muove il dottor Kien — mondo ch’egli vorrebbe fosse fatto solo di libri, dotti volumi dai dorsi pesanti, scudi contro la vita — è un mondo su cui non si è posato alcuno sguardo umano; assomiglia ai deserti di pianeti disabitati da sempre, alle Montagne Gelate di cui parla Kafka.
Timore dell’Altro, timore di essere toccati. Certo, la mania viene descritta pure quale furore erotico — «aumento morboso dell’istinto sessuale», scrive il vecchio dizionario di Eulenburg, e di erotomanie, che giungono fino al delitto, parlano spesso le cronache. Ma forse coglievano più nel segno i vecchi Fiori di Medicina, quando affermavano: «Coloro che nol fanno (l’usare di giacere con le donne), caggiono in infermitade, che si chiama mania» e il Fascicolo di medicina volgare, citato dal Battaglia, prescrive nella cura della mania, accanto a vivande leggere come carni di capretto, polli, uova fresche e bon vino bene adacquato, pure «usi con le donne». Non occorre essere veterofemministi per notare che, nella fenomenologia e anche nella terapia della mania, sono presi in considerazione soltanto o quasi soltanto i maniaci maschi, anche se donne maniache non mancano certo né nell’esperienza quotidiana né nelle rappresentazioni letterarie. Ma non è un caso che il dottor Kien di Canetti sia un assoluto misogino; mania e misoginia, anzi sessuofobia in generale, sono in questo caso inseparabili e del resto la paura di essere toccati, cui si accennava, ne è indizio inconfutabile .