«È proibito proibire», scrivevano gli studenti sui muri di Parigi. «Fate l’amore, non fate la guerra», proclamavano gli hippy nei campus universitari statunitensi. Come una furibonda ondata, la contestazione del 1968 ha investito tutto il mondo. Al centro del contendere vi erano la pace da anteporre alla guerra e una distribuzione equa delle risorse che arginasse la furia cieca del consumismo. Disarmare il mondo per renderlo dolce e innocente era l’euforica missione di quell’imponente movimento giovanile, smanioso d’amore e fratellanza, e di una nuova profonda realtà incline alla spiritualità induista.
A influenzare ulteriormente le masse “rivoluzionare” ci pensarono i Beatles, che raggiunsero l’India per frequentare un corso di meditazione trascendentale, soggiornando presso l’ashram di Maharishi Mahesh Yogi affiancati da amici noti e meno noti. La scelta dei quattro ragazzi di Liverpool ebbe un’elevata risonanza sui media internazionali, tale da accendere l’interesse della cultura popolare occidentale per le dottrine orientali. Inneggiando a Ho Chi Minh, a Mao Zedong, a Ernesto Che Guevara e a Fidel Castro, sulle note di Street Fighting Man dei Rolling Stones, i giovani organizzarono una rivolta in ogni piazza del mondo – seguendo l’esempio del Maggio francese – ruggendo indignati contro la società tradizionale, il capitalismo e l’imperialismo. Tra incanto e stupore, l’assalto fece da spartiacque tra la società degli anni Sessanta, sorretta dal benessere economico, e il sistema dei Settanta, all’insegna dell’introspezione e della soggettività.
Prendendo le distanze dalla massificazione spregiudicata e dalle regole d’uso e consumo, dove anche il lavoro dell’artista veniva trasformato in merce quantificabile, i giovani del Sessantotto spalancarono le porte a un portentoso fenomeno ideologico che si estese a ogni campo dell’espressività artistica, fino a investire ogni aspetto dell’esistenza e dell’aspetto. Con l’insorgere della contestazione, il movimento studentesco giovanile intraprese – anche dal punto stilistico – la via alternativa che ripudiava l’orpello, lo sfarzo e l’artificio per promuovere gli abiti di opposizione come l’eskimo, le borse di tela verde militare, le camicie di canapa e lino di matrice indiana. Se le ragazze lanciavano in aria il reggiseno, considerato simbolo di costrizione, i ragazzi esibivano capelli lunghi e barbe incolte, tutto in contrapposizione alla morale corrente. Oltre a esser stato un trampolino di lancio per numerose carriere e molti diversi destini, il 1968 ispirò fortemente gli artisti del tempo.
A cinquant’anni da quel fenomeno che segnò il radicale stravolgimento delle più naftaliniche convenzioni, l’estro dei creativi viene celebrato fino al 14 gennaio 2018 alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma. La mostra È solo un inizio. 1968, infatti, accende un faro sui fermenti artistici che hanno annunciato e prolungato il 1968. Curata da Ester Coen, l’esposizione racconta lo spirito di rivolta che influenzò il mondo dell’arte fedele allo Zeitgeist, che ambiva a mandare in soffitta le canoniche e opprimenti sovrastrutture per far spazio al minimalismo, al concettuale, all’arte povera, alla land art, e a tutte le altre correnti che hanno poi trovato un posto d’onore tra le pagine della storia dell’arte. Se è vero come molti sostengono che i movimenti politici sessantottini sono stati sconfitti dagli eventi recenti, è altresì vero che la rivoluzione che l’arte subì in quell’anno fatidico continua a dettar la linea del contemporaneo. È solo un inizio. 1968 non esprime alcun giudizio ma racconta “ciò che comincia” attraverso le opere – fra i tanti altri – di Vito Acconci, Franco Angeli, Gino De Dominicis, Jannis Kounellis, Luigi Ontani, Michelangelo Pistoletto, Mario Schifano, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Eliseo Mattiacci, Pino Pascali, Andy Warhol.
Con vitaminica arroganza anche les enfants terribles dell’arte internazionale hanno saputo sovvertire e dominare con un’irriverente fiammata comunicativa. Basta sostare un po’ davanti la penisola capovolta di Luciano Fabro per comprendere l’intento del movimento: colpire il bersaglio e suscitare clamore per non finire – mai e poi mai – sui muri delle case borghesi. Così, però, non è stato. «Siamo realisti, chiediamo l’impossibile», urlavano a gran voce i giovani nel Maggio francese. Sembra essere questa, senza alcun dubbio, la forza e il limite del 1968.