Ma allora, se questa è la ragione, tanto vale ridurre gli anni a tre, o a due. O a zero direttamente: sapete quanto si risparmierebbe. Dicono: anche l’Europa. E allora? Intanto solo in una parte dell’Europa, mentre in un’altra no. E poi: siamo certi che le scuole europee non dovrebbero essere oggetto privilegiato di imitazione proprio sul numero degli anni di studio e non, per dire, sulla serietà degli studi, sulla solidità degli edifici scolastici, sulla preparazione degli insegnanti e anche sulle loro retribuzioni?
No, la scuola non viene mai lasciata in pace, vittima dell’improvvisazione continua e insaziabile e soprattutto di una cieca smania di cambiamento che non si pone mai la vera questione: perché cambiare? E soprattutto: ma davvero esiste una sola persona in Italia, oltre alla teste d’uovo che percorrono i corridoi dei ministeri, che sia agitata dal bisogno di dare i numeri sui percorsi scolastici? Ma che idea hanno, i consulenti ministeriali con il patentino del moderno pedagogo, di ciò che ci si aspetta dalla scuola? È invece è stata una lunga sequenza di balletti, di riformicchie, di aggiustamenti, di sperimentazioni. Un anno i debiti scolastici sono disciplinati in un modo, l’anno successivo in un altro. E i ritocchi della maturità? Un pezzetto dopo l’altro, senza un perché sostanziale, generando confusione e disorientamento. Perché la scuola ha bisogno di tempi lunghi, di certezze, di stabilità, di non essere afferrata dalla fregola dell’esperimento cervellotico, della trovata pedagogica, del dadaismo irresponsabile per cui ogni anno tutto viene destrutturato, riorganizzato, revisionato, ritoccato, sperimentato. Esperimenti in cui gli studenti diventano cavie. Quattro anni invece di cinque: per vedere come reagiscono i topolini in laboratorio, per sentirsi moderni e all’avanguardia? E in che senso quattro sarebbe più all’avanguardia di cinque? Ecco, sarebbe allora il caso di fare marcia indietro. Di interrompere la sperimentazione che non serve a niente, che non contiene un’idea, un progetto interessante, una direzione riconoscibile, ma solo un muoversi per muoversi. E un po’ di destabilizzazione. Ma è quello che serve?
Corriere della Sera – Pierluigi Battista – 14/08/2017 pg. 31 ed. Nazionale.