Draghi-Orcel il duello

gianluca paolucci
Andrea Orcel ha appreso dell’irritazione di Mario Draghi sul fallimento del negoziato per Monte dei Paschi da Cascais, dove si trovava per lavorare al piano industriale di Unicredit. Il numero uno di piazza Gae Aulenti rientra oggi a Milano e, a dispetto delle comunicazioni ufficiali, sarà ancora della banca senese che, volente o nolente, dovrà occuparsi.
Il fatto è che a Palazzo Chigi il clima era tutt’altro che sereno. Il premier Mario Draghi – che finora ha seguito da debita distanza le varie evoluzioni del negoziato – e i suoi collaboratori più stretti hanno più di un motivo di insoddisfazione: la rigidità negoziale di Orcel, che ha minacciato più volte di lasciare il tavolo in queste settimane se non venivano accolte le sue condizioni. Inoltre, le indiscrezioni sulle richieste avanzate rendono improbabile che un qualunque altro interlocutore serio si avvicini al tavolo con condizioni diverse. E, da ultimo, non manca una certa irritazione con chi, al Tesoro, ha condotto per mesi una trattativa naufragata nel finale, per di più a due mesi dalla scadenza degli impegni presi dall’Italia con la Ue nel 2017 di uscire dal capitale entro il 31 dicembre di quest’anno.
Le indiscrezioni rilanciate dal Tg di La7 nella serata di ieri su una trattativa solo «sospesa» e non definitivamente chiusa non trovano conferma e una delle fonti si limita a dire che «si stanno cercando altre soluzioni». Ma più fonti interpellate insistono sul fatto che qualunque operazione Orcel dovesse elaborare difficilmente troverà sponde nel governo attuale, che potrebbe utilizzare alcune leve – a cominciare dai benefici fiscali – per intralciare i piani di crescita dell’istituto. Di certo, il manager – abilissimo negoziatore ma poco avvezzo agli equilibri della politica – si trova adesso in una posizione difficile, ragiona una delle fonti interpellate: tornare sui suoi passi comporta per Orcel il rischio di perdere la faccia, andare avanti quello di dover guidare una delle principali banche del paese con l’avversione dell’esecutivo. Le «altre soluzioni» a meno di sorprese, si riducono a una: Montepaschi resterà da sola, almeno per un po’ di tempo, altra condizione posta da Draghi è che lo Stato esca comunque dall’azionariato. Al Tesoro lavorano a un aumento di capitale sul mercato e a condizioni mercato, presupposto irrinunciabile per evitare che intervenga una ricapitalizzazione precauzionale a carico dello Stato con conseguenze su azioni e titoli subordinati. Prima però servirà il via libera di Bruxelles alla proroga sui tempi della cessione. La scadenza è quella della fine del piano di ristrutturazione concordato con la Commissione Ue nel 2017, ovvero il 31 dicembre del 2021 (e non come erroneamente scritto in precedenza la primavera del 2022). Proroga che non sarà incondizionata, né probabilmente indolore. Le prime interlocuzioni informali con i tecnici della Commissione giustificherebbero l’ottimismo di XX Settembre, secondo quanto ricostruito. Da queste interlocuzioni – e dalle valutazioni della Bce – dipenderà l’importo dell’aumento di capitale necessario a sostenere una Mps «stand alone».
Le comunicazioni ufficiali che arrivano da Bruxelles giustificano un certo ottimismo: «Il termine per completare la privatizzazione in base agli impegni non è scaduto», ha detto un portavoce della Commissione. «La Commissione europea segue da vicino i recenti sviluppi riguardanti la Banca Monte dei Paschi di Siena ed è in contatto con le autorità italiane», ma «come sempre, è responsabilità degli Stati membri rispettare gli impegni in materia di aiuti di Stato ed è loro compito proporre le modalità per adempiere a tali impegni. Spetta quindi all’Italia – ha aggiunto il portavoce – decidere e proporre modalità di uscita dalla proprietà Mps tenendo conto degli impegni in materia di aiuti di Stato del 2017».
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