Don Winslow America mia in guerra contro te stessa

L’epica del narcotraffico, la nuova saga, Springsteen e Tolstoj E l’addio alla scrittura per fermare Trump. L’ultimo narratore della frontiera si confessa.
di Piero Melati
L’inizio è d’obbligo: Don Winslow annuncia l’addio alla letteratura. Per dedicarsi a tempo pieno alla battaglia contro la possibile rielezione di Donald Trump: «È un grande passo — ammette — e non lo faccio certo alla leggera». Il suo, spiega, sarà un ruolo da grande accusatore e contestatore pubblico dell’ex presidente.
Ma non pensate che per questo lo scrittore si prenda troppo sul serio. Infatti poco dopo, quando la conversazione si sposta su altri temi come Providence o Bruce Springsteen, la gravità cede il passo al sorriso.
Providence è la cittadina del Rhode Island (il più piccolo degli Stati a stelle e strisce) che si trova a due passi dal villaggio costiero di Perryville, dove lo scrittore è cresciuto. Qui Winslow ha ambientato il primo episodio della sua nuova trilogia: una epopea su guerre tra clan, corruzioni e fedeltà familiari che hanno forgiato l’America moderna. La saga si apre con una citazione dall’Eneide di Virgilio: «Oh, allora tutta Troia mi sembrò sprofondare tra le fiamme». Ma a Providence è nato anche H.P Lovecraft, che divide con Edgar Allan Poe il trono di capostipite della letteratura horror. E Bruce Springsteen, dal vicino New Jersey, è stato il cantore di questi stessi luoghi.
Si sorprende, Winslow, quando gli si ricorda che James Ellroy lo ha paragonato a Tolstoj, dicendo che la sua precedente trilogia, dedicata agli orrori dei “cartelli” della droga messicani, è il Guerra e pace del nostro tempo.
«Sono abbastanza pazzo ma non fino al punto di accettare di essere paragonato a uno scrittore così grande» insiste da San Diego, California, dove vive. Alle sue spalle, un grande affresco decostruzionista. Appunto: Winslow sta decostruendo il genere noir dalle fondamenta, già con la precedente trilogia bestseller ( Il potere del cane, Il cartello, Il confine), ma poi con L’inverno di Frankie Machine, Morte e vita di Bobby Z, La lingua del fuoco, Corruzione. E con successo: diritti acquistati per imminenti film e serie tv. Non basta: ora HarperCollins manda in libreria Città in fiamme, cui seguiranno Città di sogni e Città in cenere, già scritti prima dell’annuncio del ritiro. Così i fan non resteranno a bocca asciutta ancora per un bel po’.
Non è che lei ha fatto finta di confezionare gialli ma in realtà ha scritto il “grande romanzo americano”, eterno mito, terra promessa e ossessione della letteratura statunitense? Cosa sono queste saghe poderose se non un voler seguire le orme di Melville, Twain, Faulkner, Roth?
«Intanto voglio di nuovo precisare che non mi paragonerei mai a Tolstoj. Ammetto però che i romanzi di questa ultima trilogia sono ambiziosi. Sono ambientati il primo nel New England, il secondo a Hollywood, il terzo a Las Vegas, e sono effettivamente un’opera epica, che segue la traccia di Iliade, Eneide, Odissea, e anche delle tragedie greche».
Nella trilogia messicana aveva detto che la guerra alla droga era perduta. Qui cita apertamente Omero, Virgilio, i grandi classici.
«Quel che dicevo allora, a proposito della trilogia sui cartelli della droga, era che per vincere la battaglia contro il traffico internazionale bisognava smettere di combattere una guerra inutile e legalizzare invece l’uso delle sostanze, trattando la dipendenza come un problema di tipo sanitario, quale effettivamente è. In questo caso, la nuova trilogia è ambientata negli anni ’80 e ’90, e ho cercato di fondere il romanzo poliziesco contemporaneo con i temi della letteratura classica. Con il passare degli anni, mi sono reso conto che i temi che trattiamo nella crime fiction li ritroviamo già tutti nei classici greci e romani».
C’è un’analogia tra questa trilogia e l’idea di Herbert Asbury, autore del libro “The gangs of New York”, poi ripresa da Martin Scorsese nel film con Leonardo Di Caprio, di un’America che è nata dalla violenza? Anche nella sua saga ricorrono personaggi italiani e irlandesi.
«Si tratta di analoghe storie di immigrazione. Gli italiani e gli irlandesi sono due gruppi arrivati nell’America del Nord attraverso ondate migratorie tra fine del Diciannovesimo e inizio del Ventesimo secolo. Hanno dovuto trovare un posto in questa nuova terra, dove non erano i benvenuti. Hanno combattuto per ritagliarsi uno spazio. E hanno dovuto lottare duramente. La maggior parte ha deciso di combattere legalmente questa battaglia. Altri, invece, l’hanno combattuta al di fuori da ogni contesto legale. Gli irlandesi e gli italiani ben si comprendono, proprio per questi problemi comuni. Si sono alleati in quanto migranti, contro l’establishment.
Quindi sì, il parallelo tra me, un autore come Asbury o Scorsese può essere tracciato. L’America moderna è nata effettivamente da queste lotte, alleanze e violenze».
Lei narra una catena di 49 omicidi avvenuta in New England. E li inframmezza con foto dei luoghi e citazioni dai grandi classici. Quali temi emergono, paragonabili a quelli di Omero, Virgilio e della letteratura epica, ai quali ha voluto rifarsi?
«Anzitutto la definizione di onore, soprattutto in un senso maschile. Quando viene leso, si deve rimediare e sanare la situazione disonorevole. Poi l’aspetto della fedeltà, della lealtà. A chi dobbiamo essere leali, verso chi dobbiamo mostrarci fedeli, nei confronti dei membri della nostra famiglia, dei membri della nostra tribù o delle organizzazioni di cui facciamo parte? E poi, cosa accade quando questa lealtà entra in conflitto con le nostre convinzioni, i nostri valori, che siano essi politici, etici, religiosi? Un altro tema importante è la vendetta: che cos’è la vendetta, quando è giusta, quando è sbagliata, gli effetti e le sue conseguenze ultime. Bene, tutti questi sono elementi che emergono dalla letteratura classica, latina e greca, e che compaiono non solo nei romanzi polizieschi, ma anche nella realtà del mondo criminale».
Lei ha detto: la realtà nei romanzi funziona sempre, mentre funziona meno romanticizzare le storie. Per questo motivo, in passato, ha criticato Sean Penn che nel 2016 era andato in Messico a intervistare il grande trafficante El Chapo Guzman per la rivista “Rolling Stone”. Nei suoi libri, in particolare, ha abbandonato la figura classica del detective solitario, dando vita piuttosto a una coralità di personaggi le cui storie affondano nella realtà.
«Ho criticato quell’intervista a El Chapo proprio per l’aura romantica con cui si dipingeva un personaggio reale.
Personalmente, ho sempre avuto una inclinazione verso quello che viene definito l’approccio realistico, il lato realistico del romanzo poliziesco. Sono molto legato a questo aspetto, tanto è vero che la trilogia messicana è un vero e proprio documentario. Tutto quanto ho descritto in quella saga è successo effettivamente nella realtà. La mia intenzione era quella di dare una visione di prima mano della vera realtà del mondo della droga.
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I romanzi di questa ultima trilogia sono ambiziosi. Sono ambientati nel New England, a Hollywood, a Las Vegas, e sono effettivamente un’opera che segue la traccia di Iliade, Eneide e Odissea.
«In questa ultima trilogia, invece, gli eventi, gli accadimenti, sono fiction, così come i personaggi.
Tuttavia sono sempre personaggi che si confrontano con i problemi veri del loro mondo, problemi legati alla realtà storica e interiore di quei mondi. Anche qui volevo far capire come la violenza sia una realtà, facendone delle descrizioni realistiche».
In Messico, ha scritto nella trilogia del cartello, c’è stato il più grande conflitto nascosto del nostro tempo. Cosa pensa oggi di un conflitto evidente come quello della guerra in Ucraina?
«È un orrore, un crimine, un abominio. Il cuore ti si spezza a pensare a quelle persone invase, assalite, distrutte. Sono rattristato da questi eventi e anche molto arrabbiato».
“Città in fiamme” è dedicato alle vittime della pandemia di Covid.
«Sì, anche per un fatto tristemente personale. Ho scritto il libro durante la pandemia. Mia madre è morta proprio in questo periodo. Non siamo potuti andare ad assisterla, così come non abbiamo potuto celebrare il funerale. Mentre scrivevo, centinaia di migliaia di persone morivano. Mi è sembrata la cosa giusta dedicare loro il libro».
La gestione Trump della pandemia è stata disastrosa. A questo proposito, lei, dopo il ritiro appena annunciato dalla letteratura, come appoggerà gli avversari politici dell’ex presidente?
«Io ritengo che i democratici siano migliori per candidati, idee e visione dell’avvenire, ma non per la capacità di comunicazione. Ora, dopo l’addio ai romanzi, tenterò di cambiare questo aspetto, a mie spese e senza accettare alcuna donazione».
Nel 2017 lei ha parlato di 60 mila morti in Usa per overdose e di 100 mila omicidi durante la guerra della droga in Messico. Da allora cosa è cambiato?
«La situazione è peggiorata. In Messico, in questi anni, l’ondata di violenza è diminuita semplicemente perché la lunga guerra tra narcos è stata vinta da uno o due cartelli. L’equilibrio criminale si è stabilizzato. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, nel periodo pre Covid c’era stato un appiattimento della curva di overdosi. Ma dopo la pandemia il numero è aumentato, così come è cresciuta la dipendenza da sostanze. Gli esperti concordano che sia stato l’isolamento a provocare l’aumento delle dipendenze. In particolare, è aumentato il consumo di eroina. E comunque, quando era diminuito, il cartello messicano aveva messo in produzione metanfetamine molto più potenti, utilizzando un oppiaceo di sintesi che è il Fentanyl. Il centro di profitto dei cartelli oggi è diventato proprio questo tipo di prodotto, assolutamente letale».
Uso un’espressione colorita: quanta colpa in tutto questo c’è nel naso degli americani? I consumatori non si rendono conto di essere direttamente legati a una catena di migliaia di omicidi in Messico?
«Ho ripetuto più volte che il problema della droga messicano in realtà non esiste. È il problema della droga americano, e aggiungerei anche il problema della droga europeo. Perché siamo noi consumatori che finanziamo il cartello e alimentiamo la violenza che lo caratterizza.
Siamo noi i responsabili di questa situazione, perché se non ci fosse un acquirente non ci sarebbe neanche un venditore».
In Europa, in Italia, non c’è la percezione di questo legame diretto fra traffico di droga, consumo di massa degli stupefacenti e la conseguente catena di omicidi determinata dai cartelli che lottano per averne il monopolio. Li viviamo sempre come mondi separati, non vediamo il nesso.
«Eppure ai cartelli messicani piace molto vendere la droga in Europa, perché il profitto è circa del sessanta per cento maggiore che nel resto del mondo. Sarebbe bene rendersi conto che le cose sono sempre intrecciate».
In “Città in fiamme”, ha affrontato un periodo storico importante per gli Stati Uniti e per la stessa Europa. Nel biennio ’85-87 in America venne applicata per la prima volta la cosiddetta legge Rico contro il racket, fatta approvare negli anni Settanta dal presidente Nixon ma poi mai utilizzata, perché in molti Stati americani si temeva non reggesse come accusa nei processi. Invece si è poi rivelata molto utile per combattere la criminalità organizzata americana. Anche in Italia è stato quello il biennio delle grandi lotte e dei grandi processi contro Cosa nostra siciliana.
«Sì, è stato un periodo molto importante. L’ho raccontato perché ha marcato l’inizio della fine del potere della mafia statunitense. È molto più interessante descrivere il declino di un’epoca, anche nelle fiction, perché i personaggi a quel punto risultano sotto pressione. Quegli anni segnarono l’inizio della fine delle gang italiane. Io sono cresciuto in un periodo storico in cui erano ancora molto potenti. Trovo interessante raccontare qualsiasi cultura quando viene colta nella sua fase di declino».
C’è sempre il mare, nel libro sul New England. In altri suoi lavori è sempre presente il surf. Lei stesso lo pratica e lo insegna. Lo ritiene, come molti appassionati, una filosofia di vita?
«Il mare ha sempre avuto per me una grande importanza. Sono cresciuto in un villaggio di pescatori, mio padre era un pescatore, per cui l’oceano ha sempre avuto un ruolo importante e spero che lo avrà anche in futuro. Alcuni sostengono che certi aspetti del surf possano essere paragonati a un’etica, che è la condivisione dello spazio, la condivisione del tempo, il fatto di mostrare attenzione verso l’altro. Ma io non lo definirei una filosofia. Però può essere un fatto spirituale, perché ti fa capire quanto piccolo tu sia.
L’onda su cui ti muovi fa quello che le pare, indipendentemente da quello che farai tu, e quindi ci mostra sempre il nostro posto nel mondo. È una esperienza che suscita un senso di umiltà, rispetto alla potenza della natura».
Nella serie tv “I Soprano” l’attore Dominic Chianese canta in italiano “Core ‘ngrato”. Nel suo “Città in fiamme”, durante una delle grigliate di mare a Goshen Beach, in Rodhe Island, il personaggio Pasco Ferri intona “Torna a Surriento”. È un omaggio ai “Soprano”?
«Conosco e mi piace molto Dominic Chianese. Quella è una bellissima scena. Ma la verità è che da ragazzo sono stato a moltissime di queste feste e party sulla spiaggia, e spesso ho sentito qualcuno che cantava così. È una cosa che ho vissuto di persona».
Nei ringraziamenti c’è un triplo omaggio “per il sostegno e l’ispirazione” al giro di Bruce Springsteen: al chitarrista Nils Lofgren, che ha sostituito per un periodo Steven Van Zandt nella E Street Band, anche lui attore nei “Soprano”; al produttore Jon Landau, che per primo ha scoperto il Boss; infine, allo stesso Springsteen.
«Per me Springsteen è un ascolto fisso. Tra l’altro, ci ha concesso l’uso della sua canzone
Philadelphia
quando come artisti abbiamo realizzato un video politico contro Trump, in occasione delle ultime elezioni presidenziali americane. È stato sempre una colonna sonora della mia vita, del mio lavoro, in modo particolare per questo libro. La mia città, le città che descrivo, sono le città di Springsteen, che lui ha cantato e raccontato nei suoi testi tante volte».
Providence è anche la città di origine di H. P.
Lovecraft, uno dei padri della letteratura horror. Ci ha fatto caso?
«Sì, ci ho fatto caso. Volevo scrivere della città in cui sono cresciuto, che è proprio vicino Providence. Tutti gli eventi che sono accaduti realmente nella storia del crimine a Providence ben si fondevano con la mia storia.
Dunque, la scelta è voluta. Il nome è molto ironico, se ci pensate. Providence significa Provvidenza».
Le cito quattro autori a lei in qualche modo vicini: Roberto Bolaño per i femminicidi a Ciudad Juarez, in Messico; James Ellroy per la perdita di innocenza dell’America; Don DeLillo per i grandi affreschi americani; James Crumley per le storie della frontiera.
«Non sono certo di meritare un così alto rango. Però è vero, indubbiamente condivido con loro certi elementi e percorsi».
Nella trilogia messicana l’eroina è un tipo di merce infernale. Lei pone lo stesso confine di tipo etico anche in “Città in fiamme”.
«È un male che comporta costi non solo per la famiglia e gli amici, ma per tutti. Trafficarla distrugge ogni possibilità di redenzione».
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