Biancaneve, non mi assomigli Sono Neraneve

di Pierluigi Panza

Le «leonesse dell’Africa» dell’arte hanno fatto bottino di Leoni d’oro e menzioni alla 59ª Biennale di Venezia (fino al 27 novembre). Alcune hanno passaporto delle (e rappresentano le) maggiori democrazie occidentali — Gran Bretagna, Francia e Usa, Paesi in cui l’integrazione è di più vecchia data anche per il loro passato coloniale. Il Leone d’oro per il migliore padiglione è stato assegnato alla Gran Bretagna, che lo aveva affidato, per la prima volta in più di cent’anni, all’artista nera Sonia Boyce (Londra, 1960); quello per il migliore artista è andato all’afroamericana Simone Leigh (Chicago, 1967) per la scultura di un enorme volto di donna africana senza occhi.

La Leigh, che è anche l’artista a cui è affidato il padiglione degli Stati Uniti trasformato in capanna, è un po’ la grande madre di queste artiste africane portate alla ribalta più per sottolineare una posizione ideologica che una corrente artistica. Le sculture della Leigh, che ricordano quasi divinità primitive apotropaiche da museo archeologico, intendono denunciare storie intrecciate di razzismo e misoginia. Le sue opere sono in particolare donne nere, i cui corpi aumentano con forme simili a brocche.

Tutte imbevute dei Post colonial studies americani incentrati sulla destrutturazione e messa tra parentesi della cultura umanistica europea, queste «leonesse d’Africa» sono indirette allieve di Edward Said (Gerusalemme, 1935-New York, 2003), il teorico che nel libro Orientalismo cercò di dimostrare come il colonialismo fosse stato preparato anche dalla cultura artistica e letteraria del Sette-Ottocento europeo. Prendendo recentemente forza dal movimento Black Lives Matter, hanno elaborato una cultura in parte del risentimento e in parte di denuncia delle diversità ancora esistenti. Non dobbiamo, tuttavia, pensarle come artiste naïf: i vestiti tradizionali che spesso indossano in cerimonie pubbliche fanno un po’ parte della costruzione del personaggio e la loro rete di relazioni è internazionale, spesso sostenuta da stimati galleristi.

Pensiamo alla sudafricana Lebohang Kganye (Johannesburg, 1990), la cosiddetta Neraneve, che utilizza fotografia, teatro, animazione, ritagli e scultura per realizzare la sua visione artistica autobiografica. In B(l)ack to Fairy Tales, Kganye — che nel 2018 ha esposto in Give me Yesterday alla Fondazione Prada — ricorda come le fiabe tedesche dei fratelli Grimm, soprattutto l’interpretazione che ne ha dato la Disney, siano diventate parte delle nostre fantasie infantili. «Da ragazza — afferma — mi identificavo con personaggi delle fiabe come Biancaneve e volevo essere lei. La mia pelle nera e la mia posizione sono diventate una disgiunzione crescente con le fantasie in cui credevo». Così l’inafferrabile Biancaneve ha dato alla luce Neraneve. «Davanti alla telecamera ho interpretato Black Snow per oppormi all’influenza delle fiabe occidentali a lieto fine, che sono in contrasto con la mia vita, cresciuta in una township nera». Le immagini dell’opera intendono trasmettere il contrasto tra una promessa di felicità e i tumulti della vita sudafricana, esaminando la performatività e il gioco di ruolo come strategia di decostruzione delle narrazioni coloniali.

La keniota Wanja Kimani lavora, invece, sulla rielaborazione dei miti classici realizzando immagini di controveneri nere che vestono abiti semplici e non mostrano i volti, come nel video Image No. 1, Venus II, del 2019. La compatriota Miriam Syowia Kyambi (origini tedesche e diploma alla School of the Art Institute di Chicago) usa la performance con argilla, sisal, pittura e fotografia esaminando le influenze sull’esperienza umana moderna della violenza passata e presente, del colonialismo, della famiglia, della sessualità.

Anche la franco-algerina Zineb Sedira (è nata in Iran da genitori algerini, ma è madrelingua inglese) lavora sull’eredità dell’attivismo anticoloniale, che è stato storicamente una pillola amara da ingoiare per i francesi. Lo fa usando filmati: alla Biennale ha presentato set ispirati a film come The Stranger (1967) di Luchino Visconti e F for Fake (1973) di Orson Welles.

L’altro tema sviluppato anche a partire dal modello delle Black Panther americane è quello della figura della donna, ovvero il tentativo di delineare una sorta di femminismo africano. A 65 anni dall’indipendenza, le artiste ghanesi denunciano ancora i contesti socio-economici dominanti a favore dei maschi.

Na Chainkua Reindorf è partita dalle tradizioni maschili legate al travestimento e ha creato una società segreta chiamata Mawu Nyonu composta da sette donne tutte padrone del proprio corpo. Questa dimensione viene portata avanti anche nell’opera Sunsum Kasa di Afroscope, con composizione di giornali, immagine di donna e colori della bandiera nazionale.

«Dare voce alle donne nere» è il tema di Sonia Boyce, protagonista del padiglione inglese, ma anche della Simon Lee Gallery, non certo una botteguccia underground. Boyce è un’artista afro-caraibica britannica docente di Black Art e Design presso la University of the Arts di Londra. Lavora con fotografie, suoni e video che si concentrano sui contributi non riconosciuti degli artisti/e britannici neri alla cultura del loro Paese. «Il mio riferimento sono le performer che già da decenni lavorano sul tema della rivendicazione femminile».

Quanto all’ugandese Acaye Kerunen, che ha ricevuto una menzione alla 59ª Biennale ed è stata cresciuta da una madre single, l’artista di Kampala ha plasmato la propria visione del mondo per diventare «donna consapevole». I valori materni sono evidenti nel lavoro di Acaye, che prevede molteplici collaborazioni con le donne in transizione dalla violenza domestica e dalla povertà. Le sue installazioni e opere multimediali sono dedicate all’emancipazione delle donne ugandesi e realizzate attraverso la collaborazione con artigiane locali nel tentativo di superare la distinzione tra arte e artigianato. La sua pratica artistica mette anche in discussione le visioni del femminismo liberale occidentale che trova difficile tradurre in versioni africane.

Anche le giovani di prima generazione cresciute lontano dalla terra di provenienza degli antenati, come Akosua Adoma Owusu (Alexandria, Usa, 1984; vive a New York), non si sottraggono ai temi mainstream. Con le sue pellicole surreali e quasi documentaristiche, Owusu esplora i processi di assimilazione dei membri della diaspora incentrandoli sulle questioni di genere, sull’identità sessuale, sulle identità multiple e sulla nozione di «doppia coscienza» formulata dall’attivista per i diritti civili W. E. B. Du Bois.

Se dovessimo cercare una connessione figurativa tra queste espressioni e l’arte europea moderna le potremmo trovare nel Surrealismo (ne scriviamo a pagina 30 di questo stesso numero del supplemento), attraverso la mediazione di immagini di cultura afro storicizzate come quelle dell’afroamericana Lois Mailou Jones, protagonista dell’Harlem Renaissance, le cui opere sono ora al Metropolitan e allo Smithsonian. Per le performance dovremmo rifarci a Josephine Baker. Per la costruzione di una tradizione culturale rivendicativa alla rivista anticolonialista «Tropiques» (1941-1945), al movimento New Negro che incoraggiava gli afroamericani a ritagliarsi un ruolo ideologico nelle città e, ovviamente, ai movimenti americani degli anni Sessanta.

Tuttavia, la longa manus del circuito finanziario dei galleristi americani, terminali penultimi di alcune di queste opere, non è assente all’affermazione di queste proposte tutte attorcigliate attorno all’arte come «Teoria della narrazione», al seminare mondi, alla diversità. Anche l’arte, come merce, al suo massimo grado è «spettacolo» (Guy Debord) e lo spettacolo richiede novità, di soggetti e di interpreti. Quando la novità si sposa a una ideologia culturale dominante il meccanismo diventa perfetto. Sono, non a caso, opere pensate per (e contro) l’Occidente, comprensibili soltanto all’interno del sistema di valorizzazione dell’arte globale e dei suoi santuari come le Biennali, come Documenta, come le varie declinazioni di Art Basel, come la Tate Gallery…

 

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