“Dieci anni dolorosi tra crisi, tasse alte produttività al palo e poca innovazione Ecco perché è difficile creare posti”.

NEW YORK Enrico Moretti, professore del dipartimento di Economia dell’Università della California, a Berkeley, e autore di “The New Geography of Jobs”, Houghton Mifflin Harcourt (2013), qual è la sua diagnosi sul mercato del lavoro italiano? «I 10 anni passati sono stati incredibilmente dolorosi per il mercato italiano, per due ragioni, una strutturale e l’altra ciclica. Ci sono vincoli nel sistema produttivo, obsolescenza, poca innovazione in ricerca e sviluppo e capitale umano, e alta concentrazione in settori molto esposti alla concorrenza internazionale. Altissima pressione fiscale e inefficienza del settore pubblico. A questi si è aggiunta la recessione mondiale che però è durata molto di più da noi: sei anni dopo che era terminata negli Usa, in Italia c’era ancora una domanda aggregata bassissima, e ricadute gravi sui più esposti, i giovani». Ci sono segnali di cambiamento? «Negli ultimi mesi si sono visti segnali incoraggianti, alcune dei problemi strutturali sono stati “aggrediti”, per esempio con la riforma del mercato del lavoro. Inoltre il ciclo in Europa si sta riprendendo con aspettative crescenti per il 2018». In Italia gli sgravi del governo aiuteranno? «Penso che possano essere utili ad aumentare la domanda di lavoro soprattutto per i giovani. Le poche risorse disponibili non devono essere spese a pioggia ma concentrate su fattori strategici. Inoltre non mi sembra produttivo affrontare problemi lontani: è inutile parlare delle pensioni dei giovani, la domanda più urgente al momento è se i giovani avranno un’occupazione, non se avranno una pensione. Senza la prima non si ha nemmeno la seconda». Tenga presente però che il Pa­ ese deve anche rendere conto a Bruxelles e ai vincoli di bilancio imposti. «Assolutamente si. Il nostro Paese ha avuto negli ultimi 20 anni delle finanze tutto sommato virtuose ma soffocate da un debito pregresso accumulato negli anni Settanta e Ottanta da politiche miopi e sbagliate. A mio avviso occorre continuare sulla defiscalizzazione del lavoro e con le riforme che aiutano a liberare introiti fiscali, assieme a una attività costante di spending review. Quest’ultima ha permesso di ridurre gli sprechi e accantonare somme destinate al risanamento. L’altro elemento è occorre dare corso in maniera più aggressiva alle privatizzazioni, mi stupisco come un programma forte al riguardo non rientri nell’agenda politica». Gli Usa invece sono un passo avanti? «Anche più d’uno. La crescita occupazionale continua da Obama a Trump ai ritmi di 220 mila o 230 mila nuovi occupati al mese. Sino a sei mesi fa c’erano tre punti di incertezza però: crescita salariale stagnante, crescita occupazionale precaria e part-time, basso rapporto tra occupati e popolazione anche dovuta all’invecchiamento demografico. Negli ultimi sei mesi si sono visti miglioramento su questi tre fronti. La stessa cosa era accaduta dopo il boom delle dot com». A cosa è dovuto questo doppio passo? «E’ un fenomeno che si vede in tutte le riprese che seguono le recessioni. Quando una ripresa comincia, la domanda di lavoro è ancora debole rispetto all’offerta e quindi i datori sono nella posizione di poter assumere senza ritoccare le remunerazioni. Nella seconda fase di una ripresa il mercato del lavoro accresce la domanda rispetto all’offerta e i datori devono aumentare i salari e cercare lavoratori nei gruppi meno favoriti, minoranze etniche e lavoratori meno istruiti e specializzati». Perché la crescita della produttività rimane bassa? «Perché ci sono parti del panorama industriale che non sono innovative. Per esempio il settore delle costruzioni e il commercio al dettaglio, settori enormi che danno occupazione a vari punti percentuali, ma non trainanti. I settori più avanzati, hi-tech, biotecnologie e finanza stanno investendo moltissimo». Ultima cosa, il taglio alle tasse di Trump creerà il boom tanto annunciato dal presidente? «Il taglio serve perché l’architettura fiscale attuale è stata disegnata per un mondo diverso da quello di oggi, in cui le imprese americane stavano in America e la globalizzazione era minima. Una riforma, ben fatta, non solo è necessaria ma auspicabile».

 

La Stampa.