Dialogo sulla fine del comunismo

Il testamento di Emanuele Macaluso 

Per tracciare un bilancio della sua militanza comunista Emanuele Macaluso (1924-2021) ha scelto – gli fa onore – il modulo di una franca discussione con un più giovane esponente del partito (Emanuele Macaluso con Claudio Petruccioli, Comunisti a modo nostro Storia di un partito lungo un secolo, pp. 453, €20, Marsilio, Venezia 2021). Il caso ha voluto che questo confidenziale scambio di vedute si sia trasformato in un testamento a cuore aperto, lodevolmente lontano dalla falsificante vanagloria di tante memorie e denso di spunti critici da sviluppare. Non si tratta, dunque, di un’intervista e neppure, tanto meno, di una narrazione storica o di un saggio storiografico. Non sono assenti riferimenti a congressi, a documenti, a episodi e incontri/ scontri, ma senza che il materiale assuma i canoni fissi di un organico excursus. La crisi del comunismo si colloca al tramonto di un’idea della politica e di una pratica dei suoi riti e delle sue lotte: «In realtà tale storia fu parte di un progetto globale, che costituì una fonte identitaria, un tessuto connettivo e la stella polare di una visione del mondo incentrata sull’idea della politica come forza demiurgica» (Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri, Torino, Einaudi 2021, p. IX). E questa visione «demiurgica» si avverte nelle dichiarazioni di Macaluso in ogni pagina. Mi limito a estrarre qualche passaggio dalle conclusioni (“Tirando le somme). Macaluso vuol trovare una risposta a una domanda che spesso – dice – gli è stata rivolta:

«Non c’è una vostra responsabilità per il degrado politico che viviamo oggi?». Non ha dubbi nell’ammetterlo: «se le cose sono andate così, una nostra responsabilità c’è». Quale grado e quale tipo di responsabilità? La caccia all’errore è pericolosa. È utile se svolta senza la pretesa di emanare condanne o scandire assoluzioni. Deve semmai mettere in luce ambiguità, ipotesi, progetti incompiuti, aspirazioni deluse. Per essere onesti occorrerebbe seguire la conversazione / discussione come una pièce teatrale. Non lo farò. Vado al sodo. Macaluso non è, ci tiene a premetterlo, «un pentito del Pci». Si sa che è stato tra i più tenaci togliattiani, e tra gli assertori più convinti dell’ autorità originale di Togliatti nel quadro del movimento guidato da Mosca. Malgrado la finezza tattica e il contributo decisivo nell’elaborazione dei fondamenti costituzionali della Repubblica, il Pci, però, non ha saputo costruire i fondamenti di una praticabile alternativa di governo. Anzi ne è stato per molti aspetti un impedimento. Il rapporto di fedeltà a Mosca ha giocato al proposito un ruolo determinante. Si dice che Togliatti si vantasse di essere un eretico nell’ortodossia. Ossimoro che esprime ironicamente la «doppiezza» di cui tanto si è scritto. «Doppiezza» inesistente se si accetta in toto l’interpretazione chiarita nel magnifico libro di Pons, ma esiste come percezione diffusa. Togliatti ha sempre avuto in mente una via al comunismo e in questo senso parlare di doppiezza sarebbe sbagliato. È anche vero che l’approvazione dello stalinismo e dei suoi metodi nonché il silenzio di fronte ai crimini delle «democrazie popolari» mal si combinavano con l’esaltazione del costituzionalismo italiano. Il bifrontismo era indubbio nei fatti se non nei fini. 

«Fino al 1956 la strategia togliattiana – commenta Petruccioli – si inseriva in modo propulsivo e ed evolutivo nella dinamica politica nazionale. Dopo – come risulta chiaro nel corso degli avvenimenti del 1964 […] diventa una posizione di contrasto e di resistenza, pur intelligente e manovrata». Se il Pci avesse assunto un atteggiamento diverso di fronte alla rivolta ungherese – non di rottura con il blocco egemonizzato dall’Urss, ma più coraggiosa nel rivendicare i tratti democratici di esperienze dotate di loro peculiarità e desiderosa di una costruttiva autonomia – «avrebbe dovuto portare –  dice Macaluso – anche a un rapporto diverso con il Psi; non c’è dubbio che quel rapporto abbia registrato un cambiamento di qualità nel 1956, prima con la fine del patto di unità d’azione e poi addirittura con una contrapposizione». Il “togliattismo” ha prodotto avanzamenti indubbi, ma al tempo stesso ha bloccato un’alternanza di governo. L’insistenza su un’alternativa di sistema stabilizzava una separazione che non impediva di ottenere risultati  importanti e di influenzare taluni provvedimenti governativi, ma toglieva al Pci quella risoluta gradualità riformistica propria dei settori più solidi della socialdemocrazia europea. Su questo punto il vivace dialogo tra i due comunisti supera le nebulosità nelle quali il problema è stato avvolto: una prassi analoga a canoni di ascendenza socialdemocratica non è mai diventata un’esplicita connotazione teorica, sia pure segnata da proprie categorie e nutrita di un pensiero alto e complesso. Un «peccato di presunzione» è sfociato infine in una infungibile «diversità». Il Pci è stato la «coscienza critica di una comunità immaginata su scala mondiale» (Pons).

Macaluso sostiene che il 1956 fu «un inciampo» ed in questo eufemismo si racchiude una dose eccessiva di prudenza. D’altro canto la ringhiosa posizione del Psi craxiano non aiutò certo a dissolvere diffidenze e divaricazioni. L’enfasi sulla cosiddetta questione morale fu più un mezzo di asseverare un orgoglio identitario che una strategia efficace di allargamento delle alleanze, di interpretazione delle trasformazioni sociali in atto. Il Pci sbandò tra opzioni abissalmente lontane l’una dall’altra. Tanto vago fu il seducente moralismo di Enrico Berlinguer quanto iperpoliticistico e sconnesso rispetto alla realtà il lancio del compromesso storico. E dopo il crollo del Muro che si sarebbe – in clamoroso ritardo – dovuto inventare? Il nuovo partito  da edificare su quale terreno avrebbe dovuto ergersi? Emanuele Macaluso non fu – si assicura – tra i miglioristi che si dettero da fare,  insieme ai fedelissimi di D’Alema e altri esponenti di “sinistra”, perché Occhetto, in una Rimini innevata (!), fosse eletto segretario ma azzoppato grazie a spregiudicati trucchetti (cfr. la seconda edizione di C. Petruccioli,“ Rendiconto”, La nave di Teseo) e perché si imboccasse una prospettiva esplicitamente socialista: «si doveva trarre dal Pci – è una delle sue ultime battute – il nucleo vitale, e rimuovere quello che aveva costituito un ostacolo a che fosse una forza socialista». La formula è semplicistica. «Nucleo vitale» allude ad una nobile energia etica, non a una revisione di idee. «Ostacolo» assomiglia a «inciampo» lungo un percorso determinato e inaggirabile. In Italia e in Europa il campo socialista era scosso da forte tensioni. Craxi esibiva la ghigna del vincitore e avrebbe preteso una resa totale. Se fin dall’inizio il «partito  grande» auspicato navigò in acque tempestose, tra sospetti e nostalgie, le responsabilità furono di molti. Individuandole senza perifrasi  si riuscirebbe a rispondere anche alla domanda che assillava gli ultimi anni di Macaluso.

                                                                                                                                   

                                                                                                                                  Roberto Barzanti