«Quando Giovanni Falcone arriva a Palermo per occuparsi di civile e fallimentare, come aveva fatto a Trapani, io ero già all’Ufficio Istruzione di Rocco Chinnici, ci siamo conosciuti lì. Per me non era stato facile arrivarci, avevo fatto domanda ma ero già conosciuto come “toga rossa”, anche se allora non si chiamavano così, e il Csm preferì assegnare solo uno dei due posti per quell’ufficio, dandolo a Giovanni Barrile, pur di non mandarci me. Solo dopo una lettera di protesta che scrissi su suggerimento del procuratore Gaetano Costa la mia domanda fu accolta».

Giuseppe Di Lello, abruzzese, si è trasferito in Sicilia oltre cinquant’anni fa, primo incarico alla pretura di Alia. A trent’anni dalla strage di Capaci, è un testimone straordinario della storia del pool antimafia in cui ha lavorato con Falcone, e prima dell’esperienza del gruppo di magistrati attorno a Rocco Chinnici.

Come si lavorava con Chinnici?
L’ufficio istruzione era enorme. Chinnici non costituisce un vero pool antimafia, ma comincia a concentrare i processi di mafia assegnandoli a pochi giudici. Era un embrione del pool, lavoravamo fianco a fianco, ma non ancora assieme. Neanche Falcone e Borsellino lavoravano assieme. Chinnici diede impulso alle prime indagini bancarie. Prima erano considerate una perdita di tempo, anche se già allora il segreto bancario non era opponibile agli inquirenti. Falcone, grazie anche alla sua esperienza nel civile e nel fallimentare, in questo campo era implacabile. Ma all’epoca non c’erano i computer né i telefonini ed era molto più difficile seguire le tracce, io avevo un armadio pieno di assegni sequestrati.

Chinnici viene fatto saltare in aria il 29 luglio del 1983. Che ricordo hai di quella strage?
Il ricordo di un sopravvissuto. Con Chinnici condividevamo la macchina, allora non c’erano tanti uomini di scorta, si può dire che le vere misure di protezione sono arrivate dopo la strage di via D’Amelio. Di solito il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi passava a prendere prima me e poi Chinnici, quella mattina io ero ansioso di andare in ufficio perché dovevo chiudere delle cose prima di partire per le ferie. Ma mia moglie era incinta di mio figlio e non stava bene, la nostra collaboratrice domestica tardava e allora io per aspettarla uscii più tardi. Sentimmo il botto dell’autobomba che eravamo in salotto.

Nello scoppio morì anche Trapassi. Dopo Chinnici a guidare l’ufficio istruzione arrivò Antonino Caponnetto. Voi giudici antimafia come prendeste la notizia della sua nomina? Lo conoscevate?
Per niente, non sapevamo chi fosse. Chiesi a un mio amico fiorentino e mi disse di stare tranquillo, Caponnetto era uno che conosceva il codice a memoria. Quando arrivò immediatamente ci propose di formare un gruppo di giudici che si sarebbero occupati di mafia. Falcone, Borsellino, Leonardo Guarnotta e io. Del resto il filone di tanti delitti, non solo degli omicidi ma anche delle rapine, era unico, era la mafia. Avere una lettura complessiva avrebbe aiutato. Una delle prime cose che facemmo fu ottenere dalla Guardia di Finanza un gruppo di finanzieri molto bravi distaccato presso i nostri uffici. Li guidava il capitano Ignazio Gibilaro (oggi generale comandante per l’Italia meridionale, ndr), stavano in una stanza accanto alle nostre e dalla mattina alla sera facevano le indagini sui conti correnti. Finì così la pratica burocratica di mandare le richieste al comando e aspettare per mesi la risposta.

Voi del pool cosa avete saputo della decisione di Tommaso Buscetta di collaborare? Quando Falcone partì per il Brasile vi informò di tutto?
Certo, condividevamo ogni informazione. Falcone fu molto bravo, quando Buscetta in Brasile fece un’allusione al tempo infinito che ci sarebbe voluto se avesse deciso di parlare. Giovanni capì subito che non stava parlando in astratto. Riuscimmo a ottenere l’estradizione in Italia, mentre Badalamenti se lo presero gli americani. Gianni De Gennaro, allora capo del nucleo centrale anticrime, prese Buscetta in custodia direttamente presso la questura di Roma a San Vitale e lì, a due passi dal Quirinale, andava da Palermo una o due volte a settimana Giovanni Falcone con il pm Vincenzo Geraci a interrogarlo. Buscetta parlava e Falcone verbalizzava a mano, con la sua bellissima grafia, il mafioso si fidava del magistrato che del resto ne capiva tutte le sfumature. Quando tornava a Palermo, Falcone faceva qualche fotocopia dei suoi appunti e le distribuiva a noi del pool e alla polizia giudiziaria, a Ninni Cassarà, perché le leggessimo, poi si preoccupava anche di ritirarle. Buscetta ha parlato per mesi e sui giornali non è mai uscito nulla, lo rivendico come un tratto di serietà del pool. Neanche si sapeva che stesse parlando. A un certo punto la mafia se ne accorse perché non era in nessun carcere, avemmo la sensazione che la notizia stesse per trapelare e così decidemmo di chiudere il lavoro in una notte. Quella sera ero andato a cena fuori e poi a letto a dormire, mi svegliò Borsellino dicendomi che c’era una macchina che stava venendo a prendermi per portarmi in ufficio a firmare le ordinanze, da qui è nata la leggenda per la quale sarei arrivato in tribunale in pigiama ma non è vero niente, ero vestitissimo. Nelle caserme erano già pronti i carabinieri, la polizia e la finanza, Palermo fu chiusa ermeticamente e nessuno dei 366 mandati di cattura andò a vuoto.

Era quella la maxi inchiesta che portò al primo storico maxi processo, un’altra leggenda vuole che l’atto d’accusa lo scrissero Falcone e Borsellino all’Asinara.
Premessa: malgrado tutti noi fossimo giudici istruttori senza vincolo di gerarchia, riconoscevamo che il capo era Falcone. Detto questo il provvedimento finale riempiva una quarantina di volumi: materialmente non avrebbero potuto scriverlo in due. Lo scrivemmo anche Guarnotta ed io, in particolare io mi sono occupato di tutti gli omicidi singoli, Caponnetto rileggeva e correggeva. Falcone e Borsellino furono portati per un periodo limitato all’Asinara perché era arrivata la segnalazione di un pericolo imminente. Mi ricordo che un fine settimana andammo a trovarli Giuseppe Ayala e io, Ayala secondo il vecchio codice sarebbe stato poi il pm di udienza. Questa fu un’altra intuizione di Falcone: avere sempre lo stesso pm di riferimento in modo che conoscesse il processo alla perfezione. Fu un fine settimana di lavoro, ma anche di relax al mare, ne ho un ricordo molto bello.

Diresti che eravate amici?
Lo eravamo. Condividevamo una vita blindata, tra di noi si parlava sempre del processo e chi occasionalmente stava con noi rapidamente si annoiava. C’era il problema della sicurezza, per cui dopo il lavoro non andavamo al ristorante ma più o meno a turno a casa dell’uno o dell’altro, con i familiari che così si conobbero anche loro.

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