Del colosso e delle cere.

«È l’anniversario di 2001: Odissea nello spazio ? Un omaggio a Kubrick e al monolito nero?». No, ma lo studente milanese, occhialuto, orgogliosamente nerd fin dalla felpa, non c’è andato lontano: l’anno prossimo il capolavoro di Kubrick farà 50 anni. Peccato che con il gigante di 12 metri di metallo eretto da Urs Fischer faccia a faccia con la Torre di Arnolfo non c’entri nulla. «Potrebbe essere lo strano mostro de L’Impero colpisce ancora , quello della celebre battuta “la caverna si sta chiudendo / no, non è una caverna!”». Seconda opzione. E in effetti la forma, vagamente, lo ricorda. Lo slancio plastico soprattutto. L’interpretazione cinematografica dell’opera va per la maggiore. Ma anche in questo caso, niente da fare. «E quelle due cose rosse con la fiamma in testa? — la domanda è di un gruppo di signore di mezza età provenienti da Torino, indicano le statue di cera sull’arengario di Palazzo Vecchio — Una rovesciata, su un frigorifero… È una cosa di pubblicità?».

Sfida intellettuale voleva essere. Sfida è stata. «La lanciamo qui — ci pensa lo stesso sindaco Dario Nardella ad aprire il dibattito sull’opportunità di ospitare arte contemporanea di fronte a Palazzo Vecchio — In fondo la grande arte fa sempre discutere». Urs Fischer fa discutere eccome. Soprattutto il suo Big Clay #4 , il mastodonte nero che rimarrà esposto per 4 mesi. Anche con le due statue di cera, i 2 tuscan men raffiguranti Fabrizio Moretti, segretario generale della Biennale dell’Antiquariato, e il critico d’arte Francesco Bonami. Statue che si sciolgono al sole. Ma meno, perché le dimensioni fanno la differenza. L’impatto visivo ha tutta un’altra imponenza. E giocoforza la discussione inizia e si concentra lì: ai piedi del gigantone. Dibattito da affrontare per lo più seduti. Magari leccando un bel cono gelato. «Di arte non me ne intendo. Me lo ha detto lei che questa è un’opera d’arte — è Nicoletta, accento siciliano — Sono qui per lavoro. Passo spesso da piazza della Signoria e ora so chi devo ringraziare se abbiamo un posto dove sedere: il signor Fischer». A mangiare il gelato, accanto a lei, sono una ventina: disposti tutto intorno al basamento. E se pensiamo che siamo a meno di 30 minuti dall’inaugurazione, da questo punto di vista si può parlare di successo immediato.

Giocare con le interpretazioni dei turisti è facile. Per loro è tutto bello, sono in vacanza. E soprattutto non notano quanto la piazza possa apparire differente, con nel mezzo il gigante fischeriano. È con i fiorentini che si percepisce il polso della situazione e le posizioni sono ben bilanciate tra i due opposti: «L’arte contemporanea fa sempre bene perché rompe la routine e cambia la prospettiva» e il più classico «qualcuno mi spieghi cosa sto guardando». «A noi fiorentini però non piace cambiare — interrompe una signora, anche lei col gelato — Siamo affezionati all’immagine classica di questo luogo. Anche se sedersi è comodo».

Qualcuno ci vede un’iconografia aliena, altri la potenza della natura. Ipotesi che trova riscontro nell’idea del curatore Francesco Bonami: «Fischer rimette la natura al centro del mondo nella città che aveva messo l’uomo al centro della natura». Ecco il «dialogo» tra contemporaneo e Rinascimento, fil rouge che accompagna tutte le mostre degli ultimi anni. Ma la maggior parte legge nell’opera dell’artista svizzero la più classica delle produzioni organiche umane. Il colore poi, aiuta a pendere verso questa interpretazione.

Il colore e anche uno storico dell’arte: Sergio Risaliti. «I bambini sono i primi creativi e la prima cosa che manipolano, come fosse creta, sono le loro feci. Big Clay #4 il lavoro del demiurgo che si approccia all’opera informe allo stadio iniziale. Il paragone ci sta tutto» dice. Anzi, «in questo senso è un’opera biblica». L’artista non si scompone: «L’arte è di chi la guarda — risponde Fischer — se ci vedete la cacca vorrà dire che rappresenta la cacca». Nel progetto In Florence di Urs Fischer — realizzato con il Comune e Muse — «il gigante sta a suo agio in una piazza dedicata ai giganti» è la sentenza finale di Risaliti, che indica Ercole e Nettuno. Moretti e Bonami sono ben contenti di essere diventati essi stessi opere d’arte. Hanno «donato» le loro fattezze a Fischer che na ha fatto due candele che si andranno a consumare (ci ha pensato Nardella, arrampicandosi non senza difficoltà, ad accendere lo stoppino sulle loro «teste»). «Perché dovrei guardare questi due quando accanto ho il David, Ercole, Giuditta…?» dicono i primi avventori. «Perché sono belli» rispondono altri. Siamo nel regno della libera opinione a briglia sciolta. Moretti è ritratto insieme a un busto di San Leonardo, «protettore dei prigionieri» spiega Risaliti. «È come inglobato in un abbraccio, incarnando la figura del collezionista prigioniero del suo desiderio». Bonami è rappresentato in piedi su un frigorifero ricolmo di frutta: «È una variazione sul tema del basamento, soprattutto in confronto con quelli della Giuditta e del David — ancora Risaliti — Mentre la frutta evoca le cornici robbiane».

Rispetto a Koons e Fabre, precedenti «inquilini» della piazza, si è presa dritta la via concettuale. «E vedrete che la prossima mostra oserà ancora di più nel linguaggio — preannuncia lo storico dell’arte — Stiamo abituando il pubblico».