Dedicato a Ghino di Tacco e ai ladri ‘gentiluomini’ di tutti i tempi.

È opinione corrente che il ladro ‘gentiluomo’ per eccellenza sia da identificarsi con Robin Hood, il leggendario arciere della foresta di Sherwood, che con Little John, fra’ Tac e compari si è guadagnato un posto di primissimo piano nell’immaginario collettivo di mezzo mondo. Niente di meno vero: anche la Toscana ha avuto un personaggio in tutto e per tutto assimilabile all’eroe sassone, certo meno noto nel panorama internazionale, ma non meno affascinante per profilo umano ed imprese scenografiche, degne del miglior cinema hollywoodiano.

L’antesignano toscano del mitico Robin si chiamava Ghino di Tacco ed era l’ultimo rampollo della famiglia dei Cacciaconti, nobiltà terriera di parte ghibellina insediata nel territorio de La Fratta (Torrita di Siena). Nascere in una famiglia comitale, a quel tempo, non significava in alcun modo avere vita facile, tutt’al più avere una vita un po’ meno difficile degli altri esseri umani, cioè della massa di contadini, servi della gleba, disperati e sbandati in continua lotta per la sopravvivenza, costretti a spaccarsi braccia e schiena in condizioni subumane per un pezzo di pane da consumare a fine giornata e un pagliericcio freddo su cui buttarsi la notte (il concetto di ‘diritto umano’ allora era solo una vaga idea nella mente di un Dio nascosto nella penombra delle chiese…). Ma non di rado, capitava che il mondo girasse male anche per i nobili, sempre in balìa di poteri avversi e di fazioni in lotta tra loro, sempre in bilico tra il diritto del più forte e la più brutale anarchia, come esigeva la rigida gerarchia feudale, ultimo residuo di un sistema sociale ormai prossimo al tramonto. Anche Ghino e famiglia si trovarono ben presto a fare i conti con una realtà durissima: salassati da un fisco esoso e vessatorio, torchiati dalle istituzioni ecclesiastiche che esigevano pesantissimi tributi provenienti dalla rendita fondiaria (destinata ad alimentare la vorace Curia di Roma, ladrona allora come oggi), in pieno conflitto con i guelfi di Siena, i Cacciaconti decisero di darsi alla macchia e di abbracciare come extrema ratio il mestiere del brigantaggio. Di necessità, da sempre, si fa virtù…

Li chiamarono la ‘Banda dei Quattro’: si trattava in effetti di un’amena e intraprendente impresa a conduzione familiare, formata dallo zio, il padre Tacco e i figlioletti Ghino e Turino, finalizzata ad incrementare le magre finanze domestiche con ‘azioni’ a rendimento variabile. Sei anni durò la ‘nobile’ attività dei Cacciaconti e, nonostante la sistematica persecuzione della Repubblica di Siena, che mal tollerava le rocambolesche sortite dei Quattro perpetrate ai danni dei Senesi più danarosi, dette buoni frutti, perché permise loro di sbarcare il lunario pressoché impuniti fino al 1285. Ma quell’anno il destino mise tragicamente fine alle imprese dell’accidentata congrega di parenti: il padre e lo zio furono catturati dalle autorità locali, processati per direttissima (diremmo oggi) e giustiziati in Piazza del Campo, in presenza del popolo tutto. A Ghino e Turino fu risparmiata la vita in ragione dell’età minorile, ma quello che videro quel giorno, tra le ali di folla spiegate ai lati del patibolo, era destinato a segnarli per sempre e ad indirizzarli verso un inevitabile destino.

Anni dopo, vistosi recapitare una multa salatissima (l’equivalente odierno di una cartella esattoriale) per un furtarello commesso in gioventù a San Quirico d’Orcia, Ghino decise di riesumare la premiata ditta familiare e tornò all’antico mestiere (altro non sapeva fare!), fissando la sua sede operativa nella rocca di Radicofani, posta tra le selve verdeggianti delle pendici Amiatine, espugnata e occupata ad hoc con un manipolo di compari. Dal quel luogo impervio e inaccessibile, posto al confine con lo Stato della Chiesa, presto si levò alta la fama del ‘Falco di Radicofani’.

Ghino e compagni si specializzarono in una raffinatissima forma di ‘prelievo forzoso’, perpetrato ai danni di una specifica categoria di soggetti: non certo i macilenti residenti locali, già duramente provati dal fisco d’antan, bensì i pellegrini di passaggio. Ai piedi del colle su cui sorge la rocca di Radicofani passava infatti (e passa) la via Francigena, all’epoca oggetto di un traffico intensissimo, che convogliava tutti i pellegrini che dal Nord Europa, tagliando in perpendicolo la penisola, scendevano verso Roma per far visita ai luoghi petrini. Ghino tendeva imboscate ai viaggiatori di passaggio, ma prima di spogliarli dei loro averi, borse alla mano, si documentava sullo stato effettivo delle loro finanze: erano infatti esclusi dal ‘prelievo’ i pauperes (cioè i nullatenenti), gli studenti (in ogni secolo notoriamente squattrinati), i vecchi e i malati. Ma nel caso in cui il malcapitato viandante ‘puzzasse’ di soldi (e la ricchezza allora la si poteva vedere stampata sulle facce rubizze delle persone), Ghino verificava la consistenza reale dei suoi averi e – dopo un accurato accertamento del suo status fiscale – lo sottoponeva ad un prelievo ‘in percentuale’, senza depredarlo del tutto, lasciandogli di che vivere ed offrendogli un banchetto di consolazione, in modo che potesse giungere nell’Urbe certamente più ‘leggero’, ma senza morir di fame. Per questa particolare forma di cortese riguardo Ghino si guadagnò la fama imperitura di ladro ‘gentiluomo’.

Ma l’episodio destinato ad affidare la figura di Ghino alla leggenda e alla ribalta letteraria (incarnata niente di meno che dalla mano finissima di Giovanni Boccaccio) era ancora da venire. Le fonti raccontano che l’abate di Cluny, di ritorno da Roma, ove aveva consegnato ai camerarii di papa Bonifacio VIII una somma esorbitante ricavata dalla riscossione dei crediti della Chiesa francese, decise di far tappa a San Casciano dei Bagni, per curare con le acque termali del locus amoenus il mal di fegato e di stomaco procuratogli dai bagordi goduti durante il soggiorno presso la Curia Romana. Ghino, informato dell’arrivo di una preda così ghiotta, determinato a derubare quello che ai suoi occhi appariva ipso facto un ladro ‘autorizzato’ di livello pari al suo, organizzò una memorabile imboscata e lo sequestrò con l’intento di dargli una degna lezione. Senza torcergli un capello, lo rinchiuse nella torre di Radicofani, nutrendolo per mesi di solo pane, un pugno di fave secche e vino. La dieta comminata al pasciuto prelato contro la sua volontà sortì effetti a dir poco miracolosi e gli fece passare ogni male: gli purificò il fegato, gli sgonfiò stomaco e lombi e, da ultimo, gli depurò pure l’anima, restituendolo alla piena salute fisica e spirituale. Così rinsavito, l’abate prese a cuore la causa di Ghino, tanto da ottenere per il brigante-risanatore l’assoluzione da tutti i peccati commessi fino a quel momento.

Dopo il perdono di Dio e del papa, Ghino ottenne anche quello degli uomini e di Siena, col pieno riconoscimento dei suoi diritti di sangue, e morì pienamente riabilitato attorno al 1320 (come sembra attestare il giurista Benvenuto da Imola, che non a caso lo definì: “uomo mirabile, grande e vigoroso”).

Questa rapida rievocazione è dedicata a tutti i ladri ‘gentiluomini’ della storia, di ieri, di oggi e di domani: da Robin Hood a Ghino di Tacco, da Arsenio Lupin a quel noto politico che amava firmarsi con lo pseudonimo del ‘Falco di Radicofani’, nonché a tutti gli illustri signori che oggi si stanno ‘mangiando’ pezzo a pezzo il nostro paese, senza neanche avere il garbo e l’accortezza di lasciarci quanto basta per sfamare i nostri figli e le generazioni che verranno. Paragonata al presente, la storia di Ghino non può che strapparci un sorriso bonario: come non provare un senso di indulgente benevolenza verso quel ladro che in spirito di cortesia rubava con prodigalità e ‘misura’ a coloro che possedevano molto e riconvertiva ad onestà e dirittura morale coloro che, insigniti di potere dall’alto, vessavano quelli che stavano più in basso? Viene così spontaneo rivolgere un pensiero ai ladri ‘galantuomini’ della Curia Romana dei giorni nostri: visto che non riusciamo a metterli al fresco e a farceli restare in saecula saeculorum, visto che non possiamo impedir loro di ricandidarsi per i posti di governo più appetitosi e remunerativi, col rischio di vederli inciampare nella trappola vischiosa della recidiva, proviamo quanto meno a metterli a dieta! Meglio ancora se nella fredda torre di Radicofani, all’ombra dell’occhio vigile del Falco. Chissà che, purgati dall’idea di un digiuno forzato, non rinuncino per sempre alla loro insaziabile fame d’oro…

 

(Libero contributo)