Debussy, un tempo musicale in sintonia esclusiva con i flussi emozionali

Uscito nel 2018 e tradotto a tambur battente dalla casa editrice EDT, Claude Debussy Il pittore dei suoni (pp. 370, € 28,00) è un bellissimo libro di Stephen Walsh, dal titolo sbagliato. Sebbene l’originale, A Painter in Sound, riecheggi meno la trita etichetta di maestro dell’Impressionismo, rimasta troppo a lungo appiccicata al musicista francese, sarebbe ingiusto addebitare il titolo italiano a Marco Bertoli, autore dell’ottima traduzione, che solo a costo di complicate e scomode perifrasi avrebbe potuto evitare il vieto accostamento con gli Impressionisti. Lo stesso Walsh, del resto, in più punti della sua aggiornata biografia musicale, scritta con un linguaggio fluido e mai pedante, si sforza di mettere in luce le differenze, o per meglio dire l’incongruenza del paragone tra la musica di Debussy e il lavoro di artisti come Monet, Sisley e Pissarro. A unirli era piuttosto l’istintiva ribellione contro le regole dell’istituzione: l’accademia suscitava in Debussy una repulsione condivisa con i pittori reietti del Salon, più che con i musicisti francesi del suo tempo, a eccezione di Erik Satie.

La rivoluzione espressiva compiuta all’incirca negli stessi anni da Monet, Cézanne, Gauguin, Kandinskij, che con un linguaggio disprezzato dal mondo dell’arte ufficiale lasciavano affiorare sentimenti di forme e colori sconosciuti alla pittura tecnicamente rifinita dell’accademia, trovava in Debussy una sintonia istintiva e inconsapevole. Ma a indurgli le prime aperture espressive erano stati i versi fantastici e immaginifici di Verlaine, soppiantando il precedente amore per i poeti parnassiani, su tutti Théodore de Banville e Leconte de Lisle. Più tardi, un altro genere di avvicendamento interessò la sua vita, quando la bella e libera normanna Gaby Dupont cancellò la relazione adulterina con Marie Vasnier, alla quale Debussy aveva dedicato frasi zuccherose di accompagnamento ai primi frutti della sua vena compositiva: «queste liriche non possono che appartenervi, come vi appartiene l’autore».

Mettere in luce i nessi stringenti tra la dimensione biografica e quella musicale è il merito principale della biografia di Walsh, al termine della quale si resta con la netta sensazione che Debussy fosse rimasto impigliato in una contraddizione dalla quale non seppe svincolarsi. La sua musica, infatti, ha dato voce alle pulsioni più segrete di una società, quella parigina della Belle époque, che non lo accolse mai compiutamente, nemmeno dopo che la sua opera Pelléas et Mélisande gli ottenne una fama e un successo internazionali. Il rigetto, del resto, era reciproco: figlio di un comunardo piccolo borghese ma orfano culturalmente e forse affettivamente, Debussy non cercò mai una posizione sociale ‘corretta’; anzi rivendicò a più riprese il suo anarchismo etico, che sfociava volentieri in manifestazioni di puro egocentrismo. La farsa del fidanzamento con la cantante Thérèse Roger, annunciato per tenere a freno le lingue del boulevard, che considerava la convivenza con Gaby alla stregua del ménage con una mantenuta, portò alla rottura dei rapporti con Ernest Chausson, il musicista che aveva aiutato Debussy in maniera disinteressata e realmente generosa nei momenti veramente neri della sua bohème. Qualcosa di simile avvenne, dieci anni dopo, con il poeta Pierre Louÿs, avverso al fatto che Debussy lasciasse la moglie Lilly Texier per coltivare una relazione adulterina con la benestante signora della borghesia ebraica, Emma Bardac, più vecchia di lui e già amante di Gabriel Fauré. Sullo sfondo di una Francia avvelenata dall’affaire Dreyfuss, l’antisemitismo di Louÿs non era estraneo alla vicenda; a Debussy non importava molto della questione ebraica, e più in generale delle idee politiche, fatto sta che davanti alla prevedibile opposizione dell’amico egli non mosse un dito per ricucire lo strappo, nonostante il loro rapporto avesse segnato il decennio decisivo della sua affermazione artistica.

Si direbbe che il musicista francese sfruttasse la propria vita privata per voltare le sue pagine musicali, come se il bisogno di cancellare attorno a sé ciò che gli era consueto e familiare gli facilitasse l’accesso a quella adrenalina necessaria a rinnovare il proprio stile. Chiuso il capitolo del primo matrimonio e terminato il rapporto con Pierre Louÿs, Debussy reinventò infatti il suono dell’orchestra passando dai tre Nocturnes a pagine scandalosamente pittoresche come La mer e Image. Ritrovò inoltre il gusto della scrittura pianistica, abbandonata molto tempo prima, e compose una serie di lavori che, sfruttando le novità introdotte da musicisti più giovani come Ravel, aprirono le porte al pianoforte del Novecento.
Forse, un solo aspetto rimane un po’ in ombra nel libro di Walsh, ossia la dimensione del tempo nella musica di Debussy. Se è vero che per qualunque musicista l’organizzazione del tempo è non solo un elemento fondamentale ma anche peculiare, quasi una firma sulla composizione, nel caso di Debussy il flusso temporale della sua musica si confonde con la percezione stessa del mondo. Refrattario a ogni forma di misurazione, il tempo musicale di Debussy sfugge alla scansione imposta dalla «tirannia della stanghetta di battuta» e muta perennemente assieme al vissuto emozionale, più in armonia con il monologo interiore di Joyce che con il lavoro sulla memoria di Proust. Nonostante i precoci e insistenti tentativi di affrancarsi dalla influenza di Wagner, è da lui che Debussy derivò la sua visione della musica; ma il perfezionismo e l’insofferenza per ogni forma di precetto accademico furono del tutto sue, e spiegano forse anche l’estrema lentezza nel comporre e la difficoltà, a volte patologica, di portare a termine un progetto. La sua corrispondenza, bellissima, con il l’editore Jacques Durand, è un monumento alla pazienza: non era pigrizia, quella di Debussy, ma difficoltà di dominare quel suo imprevedibile flusso interiore, che contrastava con la precisione e la chiarezza formale della tradizione francese cui egli si sentiva di appartenere.

 

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