La fantascienza di Asimov ha indagato il deserto dell’immaginazione e ha attraversato le paludi dello spaesamento della persona. Cosa resta all’uomo di oggi della sua opera? Siamo sicuri che l’individuo interconnesso abbia raggiunto una maturità tale da potersi dire autonomo di scegliere? La nostra società somiglia sempre di più al mondo immaginato del re della fantascienza.
Federico Cortese
Instancabile, decorato da un paio di basettoni napoleonici, solitario, puntellato da due occhi penetranti e arguti. Ecco a voi Isaac Asimov, quello che di certo non si può definire un “signor nessuno”. Ad undici anni il suo talento esplose con il primo racconto fantascientifico: The Greenville Chums at College, il canto di un bambino che vede nella scrittura il piacere del gioco. Un bambino che scalerà le vette della popolarità e raggiungerà le vertigini della produzione sterminata di libri: cinquecento tra romanzi e racconti di fantascienza, opere per ragazzi e saggi di divulgazione scientifica. Chi crede che la propria opera possa valere qualcosa oltre alle dinamiche editoriali e per questo si considera assolutamente disinteressato all’incasso, vorrebbe qualcosa di più rispetto alla mera popolarità: Asimov era così. Anche per questo si diceva che fosse di intelligenza superiore alla media. Il lavoro? Questione di vita o di morte. Due insostituibili compagni di vita furono per lui la penna e la scrivania. In altre parole, scrittura o niente.
Isaac Asimov nel 1988
La famiglia, di origine ebraica, non la si poteva certo definire benestante: i genitori erano umili negozianti di generi alimentari e giornali; laggiù, nella bottega paterna delle giornate ovattate e monotone di una Russia che a breve sarebbe caduta vittima del giogo dell’Unione Sovietica, il piccolo Isaac sfogliava le riviste di fantascienza, le poche di cui i genitori disponevano. D’un tratto gli Asimov decisero di trasferirsi negli Stati Uniti, a New York. La prima aria del totalitarismo sapeva già di pesante. La stoffa dello scienziato-scrittore lui era sicuro d’averla e per questo, non essendo di natura rinunciataria, s’era imposto di doversi affermare a tutti i costi riuscendo, giovanissimo, a pubblicare i primi racconti sulla rivista Amazing Stories.
Se oramai poteva sfoderare il biglietto dello scrittore provetto, non poteva ancora estrarre dalla tasca quello di scienziato. Fallisce la strada dello zoologo scappando dalle aule del dipartimento per non aver avuto il coraggio di dissezionare un gatto randagio. Lasciandosi guidare dalla personale spinta alla ricerca scientifica passò a biochimica e, un bel giorno del 1939, vi ottenne il dottorato. Studiava il corpo umano in laboratorio, analizzava i più disparati farmaci per debellare le malattie infettive dell’epoca, come la malaria che ancora mieteva vittime in mezza Europa. Ma la chimica non basta: perché non sfiorare le vette della fisica e dell’astronomia?
Un miscuglio di biochimica, fisica, astronomia per una fantascienza volta a stupire e suggestionare il pubblico. Ma come fare per suggestionare il lettore? Asimov lo prende per mano e lo conduce in spazi lontani, a mala pena immaginabili. È per questo che il “robot” diviene sovrano indiscusso della sua letteratura: una creatura in titanica sinergia con l’uomo, suo unico e incontestabile padrone. Asimov getta il lettore nell’abisso del conflitto tra la legge dei robot – che ritengono di essere condotti dal genere umano sulla strada del bene-, rispettandola, e la legge della razza umana, quella dei gentili, definizione utilizzata in Abissi d’acciaio (Doubleday, 1954).
Se adoperassimo un criterio più soggettivo di lettura del suo universo astratto di forme, potremmo intravedere il ventaglio delle sue conoscenze religiose, che rivela inconsciamente scenari tratti dell’Apocalisse di Giovanni rimpastati con pezzi di fantascienza. Il copione prevede sconcertanti episodi evangelici, come quello dell’adultera: il robot con cui parla Lije Baley, il protagonista di Abissi d’acciaio, è sconvolto dalla morale evangelica umana, tanto che decide di abbandonare la fredda e macchinosa legge dei robot.
Questo stile di scrittura fantascientifica non si era mai visto prima e continua ad essere eccezionale. Nulla da spartire con i modelli della letteratura di genere dell’Ottocento, come il Frankenstein di Mary Shelley, o con i robot cinici e apatici della fantascienza di inizio ventesimo secolo. Asimov è un’altra storia: niente di tutto ciò. “Volle riprendere a patto di cambiarla l’idea classica di robot” osservò il giornalista Giuseppe Lippi nel saggio di commento Asimov e l’uomo artificiale (Mondadori, 1986), dipingendo automi profondamente buoni e socievoli. Un concentrato di sistemi logico-matematici affastella la coabitazione tra umano e artificiale. “Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno”: è la prima delle tre leggi della robotica a cui tutti i robot devono obbedire grazie al loro cervello positronico.
Proviamo a riflettere: detto così, questo assunto basterebbe già da solo a permettere la convivenza tra uomo e macchina. L’individualità dell’uno non deve pregiudicare quella dell’altro. Ci vengono in mente altri motivi per i quali l’uomo dovrebbe progettare automi se non perché questi siano al suo servizio? No, e questo è un bene; non deve mai accadere il contrario. Sarebbero guai!
Il robot positronico di Asimov si annoia ad essere un automa, vorrebbe essere umano
L’epoca del primato tecnologico e dell’intelligenza artificiale – nel caso in cui non ve ne foste accorti, è quella in cui viviamo – scaraventa sulla faccia della Terra un povero o fortunato individuo contemporaneo che assiste ai primordi dell’incontro-scontro tra organico e inorganico; un duello sempre più accentuato e impegnativo da sostenersi. Ma come facciamo a trovare una chiave di lettura per questo nostro mondo così ingarbugliato e frenetico? Trattare quotidianamente con uno spazio conflittuale e problematico è come essere dei novelli Teseo, perduti nel labirinto del Minotauro di Creta, senz’altra via di uscita se non quella di seguire il sottile filo di Arianna. Ma chi è oggi la nostra Arianna? Questo è il problema. E se esplodesse la convivenza tra uomo e intelligenza artificiale? L’uomo sarà forte abbastanza da ribellarsi alla tecnica, forse con un nuovo impeto ludista, come capitò ad inizio Ottocento, quando gli operai distrussero le prime macchine tessili industriali che rubavano loro il lavoro? Oppure sarà la tecnologia avanzata a tenere in scacco l’uomo sfuggendogli di mano e superandolo? Quanto dovremmo aspettare perché una di queste due ipotesi si realizzi?
Ci troviamo immersi nell’era dei big data e della speculazione sulla privacy. La sociologa Shoshana Zuboff ha denunciato sgolandosi ne Il capitalismo della sorveglianza (Luiss, 2019) come:
I capitalisti della sorveglianza sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno. Accumulano un’infinità di conoscenze da noi e non per noi. Predicono il nostro futuro perché qualcun altro ci guadagni, ma non noi.
Shoshana Zuboff
Quindi il filo di Arianna non può che essere la consapevolezza, che appartiene solo a chi riesce a raccogliere i cocci del vaso caduto in mille pezzi e a ricomporlo. L’intelligenza artificiale, come la vita interconnessa, è un mostro che fagocita l’individuo che non la conosce e che non ne percepisce la pericolosità in potenza. Ma come tenere “a bada” questo strumento potentissimo? Non è facile rispondere, ma se Elon Musk, imprenditore eletto a rango di semi divinità, figura seguitissima e camaleontica è arrivato a dire che: “col tempo credo che probabilmente vedremo una fusione tra intelligenza biologica e intelligenza digitale”, bisogna dargli un po’ di credito.
Il miglior cemento sul quale dovremmo innalzare l’impalcatura della rivoluzione digitale è quello dell’etica: creare una casa digitale che sia abitabile e non un luogo angusto con un tetto pericolante che potrebbe crollarci sulla testa da un momento all’altro. Luciano Floridi ne La quarta rivoluzione (Raffaello Cortina Editore, 2017) ha definito questa etica come
Un nuovo ambiente meritevole di cura e di attenzione morale da parte degli inforg che la abitano.
Luciano Floridi
Su questo punto anche Asimov non scherzava e aveva saputo prendere posizioni chiare e profetiche. La sua psicologia gli sussurrava all’orecchio che l’uomo, in fin dei conti, provava una sottile paura nei confronti dei robot; robot che noi oggi potremmo identificare meglio come intelligenza artificiale. L’ultima partita a scacchi, quella della resa dei conti, è probabile che sarà giocata sul terreno dell’autoaffermazione, bisogno innato dell’uomo; e il giorno in cui mancherà del tutto potremmo assistere ad un nuovo capitolo di questa epopea con il titolo da brivido, scritto a quattro mani da Asimov e Nietzsche, di: “L’uomo folle”.
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