Lettere Commenti & Idee
Nei sistemi politici maturi, è fisiologico perdere le elezioni e poi ricandidarsi la volta successiva per provare a vincerle. Ma quello italiano è un sistema politico maturo? Quello che sta capitando in queste ore nel centrosinistra e nei sindacati sembra prescindere da questo semplice interrogativo. Tutte le parti in causa ragionano e si muovono come se dinanzi al Paese si stesse materializzando una ordinaria prospettiva elettorale. Ma non è così.
È questo il vero nucleo della questione. In pochi sembrano accorgersene. E chi si assumerà la responsabilità di infrangere anche solamente la speranza di rendere vincente la parte più progressista dell’Italia non si caricherà soltanto il peso di una sconfitta.
Sarà qualcosa di più. La sinistra mostrerà plasticamente tutta la sua incapacità di raccogliere le sfide del nuovo millennio. Confermerà di non aver colmato il deficit politico e culturale che è stato imposto dalla globalizzazione. Si rivelerà nell’incoscienza di se stessa. Dimostrerà di non sapere ancora quale sia la sua nuova natura.
E forse di non averla.
Il confronto, quasi inaspettatamente, in questi giorni è stato incardinato sul merito di alcune questioni: lo Ius soli, il biotestamento, le pensioni, il Jobs act. Ma i capi di questo centrosinistra che appare sempre più lacerato non riescono a uscire dai personalismi. Il Pd ha dovuto trincerarsi dietro la mediazione di due ”padri nobili” come Romano Prodi e Walter Veltroni per darsi una credibilità. Renzi, il suo segretario, avverte una chiara impossibilità personale, una avversione a confrontarsi con Bersani e D’Alema. E nello stesso tempo i leader di Mdp, una volta chiusi nel recinto della discussione concreta, sembrano alla disperata ricerca di una precipitosa via di fuga. Mark Thompson, l’amministratore delegato del New York Times, nel suo libro La fine del dibattito pubblico scrive: ormai nel confronto politico esiste «una voluta separazione tra linguaggio e realtà». La retorica è slegata dalle ragioni della politica. È esattamente quel che sta succedendo in Italia. Perché il punto, in questo caso, non è il merito. Senza accorgersi che i problemi del centrosinistra non sono più quelli della leadership o della premiership. Una questione dal punto di vista elettorale secondaria, se non del tutto superata. Ma soltanto quelli di non arrendersi ai due populismi – della destra berlusconiana e di quella grillina – che stanno conquistando il Paese, prima culturalmente e ora politicamente.
Per questo la sconfitta alle prossime elezioni non sarà ordinaria. Rischia di essere duratura. Di desertificare il terreno riformista. Nessuno dei leader che lo avrà mandato in pezzi potrà illudersi di essere legittimato a ricostruirlo. E sopratutto si porranno le condizioni perché la vittoria populista condizioni il Paese per più di una legislatura. Facendo crollare persino la speranza di una rivincita nel breve periodo. Una sindrome che sembra colpire anche i sindacati. Per la prima volta dalla nascita della seconda Repubblica, l’unità sindacale può rompersi in presenza di un governo di centrosinistra. Sembra sempre più lo specchio della crisi che sta vivendo il fronte progressista. Soltanto nel 2007, con l’ultimo esecutivo Prodi, la Cgil aveva minacciato di non firmare un’intesa. Ma in extremis lo fece con una adesione separata. Forse, allora, è opportuno che tutti si accorgano – compreso Bersani che utilizzò questa metafora – che la destra è alle porte e che la «mucca si trova nel corridoio».
È questo il vero nucleo della questione. In pochi sembrano accorgersene. E chi si assumerà la responsabilità di infrangere anche solamente la speranza di rendere vincente la parte più progressista dell’Italia non si caricherà soltanto il peso di una sconfitta.
Sarà qualcosa di più. La sinistra mostrerà plasticamente tutta la sua incapacità di raccogliere le sfide del nuovo millennio. Confermerà di non aver colmato il deficit politico e culturale che è stato imposto dalla globalizzazione. Si rivelerà nell’incoscienza di se stessa. Dimostrerà di non sapere ancora quale sia la sua nuova natura.
E forse di non averla.
Il confronto, quasi inaspettatamente, in questi giorni è stato incardinato sul merito di alcune questioni: lo Ius soli, il biotestamento, le pensioni, il Jobs act. Ma i capi di questo centrosinistra che appare sempre più lacerato non riescono a uscire dai personalismi. Il Pd ha dovuto trincerarsi dietro la mediazione di due ”padri nobili” come Romano Prodi e Walter Veltroni per darsi una credibilità. Renzi, il suo segretario, avverte una chiara impossibilità personale, una avversione a confrontarsi con Bersani e D’Alema. E nello stesso tempo i leader di Mdp, una volta chiusi nel recinto della discussione concreta, sembrano alla disperata ricerca di una precipitosa via di fuga. Mark Thompson, l’amministratore delegato del New York Times, nel suo libro La fine del dibattito pubblico scrive: ormai nel confronto politico esiste «una voluta separazione tra linguaggio e realtà». La retorica è slegata dalle ragioni della politica. È esattamente quel che sta succedendo in Italia. Perché il punto, in questo caso, non è il merito. Senza accorgersi che i problemi del centrosinistra non sono più quelli della leadership o della premiership. Una questione dal punto di vista elettorale secondaria, se non del tutto superata. Ma soltanto quelli di non arrendersi ai due populismi – della destra berlusconiana e di quella grillina – che stanno conquistando il Paese, prima culturalmente e ora politicamente.
Per questo la sconfitta alle prossime elezioni non sarà ordinaria. Rischia di essere duratura. Di desertificare il terreno riformista. Nessuno dei leader che lo avrà mandato in pezzi potrà illudersi di essere legittimato a ricostruirlo. E sopratutto si porranno le condizioni perché la vittoria populista condizioni il Paese per più di una legislatura. Facendo crollare persino la speranza di una rivincita nel breve periodo. Una sindrome che sembra colpire anche i sindacati. Per la prima volta dalla nascita della seconda Repubblica, l’unità sindacale può rompersi in presenza di un governo di centrosinistra. Sembra sempre più lo specchio della crisi che sta vivendo il fronte progressista. Soltanto nel 2007, con l’ultimo esecutivo Prodi, la Cgil aveva minacciato di non firmare un’intesa. Ma in extremis lo fece con una adesione separata. Forse, allora, è opportuno che tutti si accorgano – compreso Bersani che utilizzò questa metafora – che la destra è alle porte e che la «mucca si trova nel corridoio».
La Repubblica – CLAUDIO TITO – 20/11/2017 pg. 25 ed. Nazionale.