Critica del secolo impaziente Sloterdijk boccia il Novecento.

In una Germania agitata da inquietanti minacce di tempesta, attraversata da nuovi, antichi turbini, dove la filosofia sonnecchia da tempo, chiusa dentro le accademie e soffocata dall’estenuante moralismo degli analitici, a fare notizia è sempre ancora lui: Peter Sloterdijk. Non si placa una polemica, che se ne accende un’altra. E così i giornali tedeschi, per non parlare di riviste, inserti culturali, siti web, sono continuamente alle prese con questa straordinaria figura di filosofo che di recente, oltre ad aver pubblicato dall’editore Suhrkamp un romanzo erotico, ha ritradotto magistralmente nella sua lingua Il piccolo principe . D’altronde, non è difficile immaginare che Sloterdijk si identifichi nel personaggio nato dalla penna di Antoine de Saint-Exupéry, dato che «si vede bene soltanto con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

Odiato e amato, denigrato e osannato, questo geniale alchimista dello spirito, al contempo brillante incantatore e profeta indisponente, che con un gusto quasi perverso fa saltare vecchi schemi e implodere consolidate idee, è il vero fenomeno della cultura tedesca contemporanea. Sebbene di recente si sia autodefinito un l inker Konservativer , un «conservatore di sinistra», Sloterdijk sembra sottrarsi a ogni definizione. Ma questo almeno appare certo: è lui, in ambito tedesco, la voce della filosofia continentale, l’arguto erede di Friedrich Nietzsche e Theodor Adorno, l’ultimo apocalittico, frequentatore assiduo, anzi habitué del Grand Hotel «Sull’abisso», ormai molto in disuso.

Mentre in Germania si discute ancora con toni accesi sulle tesi contenute nel suo volume più recente, il libro è appena uscito in italiano da Bollati Boringhieri: Che cosa è successo nel XX secolo? Intorno a questa domanda, che è insieme una provocazione e una sfida, si dispone e si articola la raccolta di saggi, un prezioso colpo d’occhio, una panoramica complessiva e quasi un bilancio del pensiero di Sloterdijk. Due dei contributi sono dedicati — non per caso — agli esponenti forse più significativi della filosofia continentale: Jacques Derrida, il «filosofo nel castello degli spettri», e Martin Heidegger, il cui periglioso cammino, delineato nei Quaderni neri , viene letto come un’inedita filosofia della storia, una riflessione apocalittica sul tempo della fine.

Sloterdijk sottolinea la forte continuità che lega l’oggi al Novecento, come se nessun evento recente, né il disastro di Cernobyl, né la caduta del Muro di Berlino, né l’11 settembre, avessero potuto segnare davvero una cesura. Di qui le difficoltà a riflettere su un secolo che non può essere ricordato, bensì solo rimosso, proprio perché non esiste la dovuta distanza. Si spiegano allora le passioni che quell’epoca continua a suscitare — persino nelle nuove generazioni. Impossibile, dunque, la sovrana indifferenza, il «sangue freddo» con cui, come suggerisce Hegel, bisognerebbe considerare la storia.

Non bastano né la storiografia né la storia delle idee per un periodo convulso dove gli avvenimenti sono andati intrecciandosi in un groviglio inestricabile. Proprio per questo non è possibile, secondo Sloterdijk, individuare in un singolo evento, in un carattere o un tema, l’immagine dell’epoca. I candidati non mancano: la rivoluzione russa, l’atomica, la teoria della relatività, l’atterraggio sulla luna, la rivoluzione sessuale. Neppure l’iperbole oscura della Shoah, lo sterminio degli ebrei d’Europa, ancora non indagato nella sua profondità concettuale, potrebbe far pienamente luce sul dramma globale del XX secolo. Ecco perché Sloterdijk rifiuta tutte le etichette che si sono imposte finora con una certa fortuna: dall’«età dei totalitarismi», che offrirebbe solo un quadro parziale ed esemplificato, al «secolo breve» di Eric Hobsbawm, formula mediante cui si vorrebbe far terminare il Novecento con la fine dell’esperimento sovietico, nel 1991. Come se la «grande guerra civile europea e poi mondiale», quella tra comunismo, fascismo e liberalismo, nel modo in cui l’ha delineata lo storico di destra Ernst Nolte, potesse esaurire il significato di un secolo tanto complesso.

Liberarsi dai vecchi schemi per poter tentare finalmente di comprendere il Novecento: questo è il suggerimento di Sloterdijk, che mira a trovare un passaggio attraverso quell’autodistruzione. Il rischio, soprattutto per gli europei, è lasciarsi alle spalle un «secolo perduto» che, con i suoi conflitti e le sue atrocità, appare una desolata discarica di violenza e un arsenale di miti a cui qualcuno sarebbe sempre incline ad attingere. Certo il XX secolo è stato segnato dall’estremismo. Avrebbe allora ragione Hobsbawm il cui libro, nella edizione originale inglese, si intitola The Age of Extremes («L’età degli estremi»). Ma per Sloterdijk non si tratta solo di questo. E per il Novecento parla perciò di «apocalisse del reale». La formula, solo in apparenza enigmatica, rinvia alla «passione del reale» con cui il filosofo francese Alain Badiou ha definito la tensione di quell’epoca nel suo saggio del 2005 Il secolo .

Qui e ora: la volontà di realizzare immediatamente i propri progetti. «Secolo delle resistenze e delle epopee, distruttore senza rimorsi, il secolo — scrive Badiou — ha voluto, nelle sue opere, uguagliare il reale di cui aveva passione». Ma se per Badiou questa passione ha ancora valore, per Sloterdijk è tempo di guardarla spietatamente, di smascherarla. La passione per il reale è stata il modo di reagire a una complessità insopportabile. Il Novecento va visto come il «fondamentalismo della semplificazione», la battaglia furiosa «in nome del reale», combattuta con un atteggiamento fiero e aspro, l’aspirazione a una rottura radicale con il mondo precedente. Non «principio speranza», nel senso inteso da Ernst Bloch, bensì «principio impazienza». Impossibilità di attendere — principio subito! Ecco il mito del «nuovo inizio».

Nel Novecento il reale ha voluto comandare. Ma né la passione ha mai potuto essere soddisfatta, né il reale ha potuto attuarsi pienamente. Il XX secolo sembra non aver avuto luogo, e aver lasciato in giro tanti spettri, sembra, anzi, il «secolo fantasma». Perciò inquieta e coinvolge ancora, perciò non può essere dimenticato, ma neppure ricordato. Se il Novecento è il tempo apocalittico che attende il «Regno del reale», occorre allora chiedersi quale reale si intenda. Ma qui Sloterdijk non usa mezzi termini e punta l’indice contro realismi e nuovi realismi di ieri e di oggi che «si votano al compito di assicurare un posto adeguato, nei parlamenti del sapere, alle dimensioni delle realtà celate o rimosse». Ovviamente il reale sarebbe solo il mio, non il tuo. La violenza nasce dall’immaginare di possedere il reale e dalla volontà di attuarlo. Dove ci sono «apostoli del reale, non possono essere lontani neppure i martiri del reale», né tanto meno i «nemici del reale».

L’archetipo di questo fondamentalismo aggressivo va scorto nella Rivoluzione francese, in quel giacobinismo che ha coniugato la passione del reale con lo schema evoluzionistico. I nuovi realisti sono stati sempre convinti di lottare contro un avversario superato dalla storia, cioè contro il predominio dell’irreale che deve essere spezzato. Il Novecento appare agli occhi di Sloterdijk l’esito della modernità, l’ultima tappa della «avanzata trionfale dei realismi». Perciò richiama le parole di Nietzsche: «Come il “mondo vero” finì per diventare favola». E varrebbe poi sempre la pena di leggere su questo le pagine del grande libro di Karl Löwith Da Hegel a Nietzsche .

Questo «vassallaggio al reale» ha assunto forme diverse anche nella «grande politica» del XX secolo. Ma sarebbe un errore credere che sia estinta l’idea secondo cui quel che sta in basso, o che tende al basso, abbia un grado maggiore di realtà e possieda quindi più valore. «Ovunque i nuovi realismi trovino voce, gli uomini diventano vassalli e media di realtà soverchianti». La «metafisica della gravità», con le sue finzioni sul suolo, le radici, i fondamenti, resta un grande pericolo. Da qui nascono tutti i fondamentalismi.

Nella sua filosofia, sviluppata nei tre volumi delle Sfere , Sloterdijk replica alle ontologie polemiche del reale con una «ermeneutica dell’esistenza antigravitazionale». Occorre volgersi verso ciò che è «aereo, senza radici, atmosferico». La profondità sta nell’ascesa in alto, nell’aria. Ciò è anche in consonanza con il modo in cui Sloterdijk legge la storia, non secondo lo schema della lotta di classe, bensì secondo i modi in cui sono state sfruttate le fonti energetiche. Dal carbone prometeico al petrolio, al gas naturale: così l’epica dei motori ha dato avvio alla grande narrazione dello «sgravio». Neppure Karl Marx aveva capito che il carbone non era una materia prima come le altre, bensì il «primo agente di sgravio». La vera novità del Novecento sta nella dinamica antigravitazionale della tecnica, che in Occidente ha portato ad uno «sgravio» delle condizioni di vita e alla civiltà del comfort di massa. L’impazienza epocale del XX secolo va vista come l’irruzione di nuove forze motrici. Si è pazienti un’ultima volta, per non dover mai più pazientare. Non vale la pena soffermarsi ancora sugli orrori celati qui.

Oggi si viene gettati nel mondo del troppo e dell’eccesso, dove lo spreco è considerato il primo dovere del cittadino. Nell’attuale «Serra della civiltà» a dominare è quindi il principio dell’opulenza: «La frivolezza delle masse è l’agente psico-semantico del consumismo». Diviene allora chiaro che la «leggerezza» è passata in primo piano. Ma questa parola può essere intesa in modi diversi: leggerezza vuol dire incoscienza, noncuranza, sventatezza, e dunque ideologia del godimento e del consumo a oltranza; ma può significare anche leggerezza nel senso di un’esistenza che si protende in alto, verso l’aperto dell’atmosfera, una risposta a realismo e fondamentalismo.

Se il XX secolo aveva messo all’ordine del giorno la realizzazione dei sogni della modernità, senza fermarsi a interpretarli, allora il XXI secolo, così contiguo da confondersi con il precedente, dovrà cominciare da una «nuova interpretazione dei sogni». Se non vuole ancora vivere con gli spettri.