Covid, il Paese è una pentola che bolle. Ma la violenza va condannata sempre

Gian Carlo Caselli

Poi l’economia in crisi: licenziamenti; fatturati al minimo; cassa integrazione e altre doverose indennità in crescita esponenziale; onerosi bonus sociali per poter tirare avanti; debito pubblico faraonico; Pil in caduta verticale; povertà diffusa. Conseguenza di tutto ciò è l’insorgere in ciascuno di noi di forme anche gravi di preoccupazione, ansia, paura e insicurezza. Con l’aggravante di alcune disinvolte analisi politiche che invece di governare il disagio cercano irresponsabilmente di fomentarlo.

Ed ecco alla fine una miscela a rischio esplosione, una pentola in ebollizione dalla quale l’acqua ha preso a tracimare. Rientrano in questo quadro le violenze di piazza che si sono avute pochi giorni fa a Napoli, Torino, Milano, Roma e altre città.

Una premessa, persino scontata. La maggior parte di coloro che partecipano a manifestazioni di piazza contro misure governative che si sforzano (in un mare di difficoltà ed incertezze) di equilibrare sicurezza sanitaria e socialità, sono persone per bene. Si tratta per lo più di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, lavoratori autonomi, precari e disoccupati; tutta gente che vuol farsi sentire portando in piazza pacificamente il proprio disagio. Ma a queste persone per bene si mescolano spesso figuri che hanno ben altri obiettivi. Alcuni con una matrice tout court criminale, altri con venature pseudo ideologiche.

Se esaminiamo nel dettaglio queste ultime componenti, ci troviamo innanzitutto uomini di questa o quella cosca. Nel Covid le mafie ci guazzano. La crisi di liquidità infatti offre importanti opportunità che i mafiosi sono pronti ad afferrare con il loro dna di sciacalli-avvoltoi abituati a speculare sulle sofferenze e disgrazie altrui. E poi, nelle aree in cui maggiormente si fa sentire la mancanza di interventi pubblici di sostegno, su quell’altra pandemia – di povertà e di fame – che il Covid ha causato, le mafie hanno costruito una forma perversa di welfare, il “welfare mafioso”, così consolidando il proprio potere. Per cui non è difficile alle mafie provocare – appunto – manifestazioni di ribellismo collettivo con gravi problemi di ordine pubblico.

Ribellismo cui dànno un buon contributo anche gruppi di neo-fascisti, gruppi di antagonisti sedicenti rivoluzionari e gruppetti di ultras delle curve calcistiche. Il collante di questa marmaglia è il collaudato “tanto peggio – tanto meglio”, cioè il caos organizzato che offre la prospettiva di qualche losco vantaggio (a partire dalla rivincita contro gli “sbirri”). Con la complicazione che al di là del ricorso comune alla violenza come metodo di lotta, regna una confusione da torre di babele.

I fascisti urlano “libertà!”; gli antagonisti invocano “diritti!”: in un caso e nell’altro un clamoroso “ossimoro” che confonde le idee in quanto nemico della logica e del buon senso. Posto che i primi si ispirano ad ideologie che la libertà l’hanno calpestata, mentre per i secondi i diritti sono una specie di elastico da stiracchiare a piacimento (rivendicato per sé ma negato a chi la pensa diversamente). Negli ultras, poi, di idee diverse dalla violenza fine a se stessa è quasi impossibile trovarne.

Mentre ancora non definito è il ruolo che nelle violenze hanno avuto anche dei minorenni, alcuni stranieri. Dei quali per ora si conoscono solo concise dichiarazioni ai giornali, tipo “della manifestazione abbiamo saputo da Instagram e ci siamo andati per noia e curiosità ma soprattutto per fare casino”. Uno di loro poi ha accolto i giornalisti dicendo compiaciuto che se lo cercavano era perché era diventato famoso: la conferma che si spaccano le vetrine per finire sulla vetrina mediatica.

Vetrina o non vetrina, impossibile non parlare di queste vicende.

Purché dalla violenza ci si dissoci onestamente: senza ambiguità, senza frasi fatte o giochini retorici, senza ipocrisie o riserve mentali. La violenza, in quanto pratica delinquenziale, va condannata con chiarezza sempre, respingendo ogni pretestuoso distinguo. Anche quando capita, a certi soggetti che l’hanno praticata, di essere condannati: mentre in alcuni ambienti si tende a parlarne come di perseguitati “a prescindere”, in ragione delle loro idee. E poi va detto e ripetuto che la violenza in democrazia non risolve nessun problema, ma ne crea di nuovi che ritardano la soluzione di quelli che già ci sono, innescando derive pericolose.

Infine, è sacrosanto ricordare che ci si deve preoccupare – oltre che della violenza – anche delle radici del malcontento che i violenti possono sfruttare ai loro fini. Cercando di aggredire queste radici e non solo le manifestazioni violente. Ai giri di vite ritenuti necessari per la tutela della sicurezza, devono accompagnarsi congrui “ristori” economici, effettivamente versati, non solo promessi. E’ talmente ovvio che sta diventando un luogo comune. Peccato che i ritardi creino delle crepe in cui può insinuarsi di tutto.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, il blog di Gian Carlo Caselli