Così Trump sfrutta Jfk per fare pace con la Cia.

 

I DOSSIER SEGRETI
COSA ci sarà mai, in quelle 300 pagine che Donald Trump non ha voluto desecretare sull’assassinio di John Kennedy? Una cosa di sicuro c’è: è un pegno offerto alla Cia e all’Fbi, un gesto rappacificatore per un presidente che con l’intelligence aveva litigato troppo. È forse una rivincita del Deep State, qualcosa che noi potremmo tradurre in italiano come i “corpi separati”? Trump ha verosimilmente ascoltato i consigli della “giunta militare” di cui si è circondato, il trio dei generali Kelly-McMaster-Mattis. SEGUE A PAGINA 29 SERVIZI A PAGINA 11 « PAGINA IL PENTAGONO non ha un rapporto idilliaco con la Cia, però ha decenni di esperienza su come evitare che i servizi segreti gli remino contro. La cosiddetta giornata “storica” in cui la Casa Bianca ha divulgato 2.800 pagine dagli archivi segreti sul dossier Jfk meriterebbe altrimenti di essere ricordata come un non-evento. Bella novità, scoprire che a Mosca qualcuno all’epoca sostenne che fosse Lyndon Johnson il mandante dell’assassinio: sui tabloid del 1963 era una delle piste più chiacchierate, al Kgb non dispiaceva alimentarla. Stupidaggine, tanto più che Johnson fu un coerente continuatore del presidente ucciso, nel male e nel bene: nella guerra del Vietnam, nel progresso sui diritti civili, nelle grandi riforme sociali, il cowboy texano portò a termine lealmente i progetti dell’intellettuale dandy bostoniano. Tutte le altre piste, cospirazioni, teorie del complotto (mafia, Urss, Cuba), sono state triturate all’infinito nel frullatore delle fake news che ebbe il suo battesimo moderno proprio in quel tragico 22 novembre 1963, quarant’anni prima di Internet.
Ed eravamo ancora nella preistoria di Internet, nel 1992, quando un film di Oliver Stone riaccese le fantasie e costrinse George Bush padre a promettere l’apertura di tutti gli archivi entro 25 anni.
A eccitare l’attesa, a pompare l’atmosfera di suspense, ci si era messo proprio Trump. Un patito di tutte le teorie del complotto. A cominciare dalla birther theory, l’ignobile menzogna su Obama nato in Kenya e musulmano. Fino a includere proprio un’altra bufala su Jfk, usata da Trump in piena campagna elettorale un anno e mezzo fa: quando insinuò che il padre del senatore Ted Cruz (suo rivale per la nomination repubblicana) era stato un complice di Lee Oswald. Dunque lo stesso Trump, informato che stava venendo a scadenza la legge del 1992 con l’obbligo di aprire gli archivi segreti sull’attentato di Dallas, si era messo a twittare: “Molto interessante!”.
Poi di colpo, quella decisione: le 300 pagine bloccate, a disposizione della Cia e dell’Fbi perché ne facciano un “riesame” entro 180 giorni. Sembra una farsa del Saturday Night Live, la dichiarazione della Cia secondo cui alcuni dei documenti più recenti risalgono agli anni Novanta, quindi possono rivelare «nomi di agenti Cia tuttora in servizio, metodi di lavoro, partnership». E Trump che abbocca o comunque finge di prenderli sul serio: «Non ho avuto altra scelta, per non consentire danni irreparabili alla nostra sicurezza nazionale». Sublime comicità. La legge Bush gli ha dato 25 anni per capire se in quelle carte c’era qualcosa di compromettente, e ora gli servono 180 giorni? La chiave della sceneggiata è un’altra. Trump ha passato i primi mesi del suo governo a inimicarsi gran parte della comunità dell’intelligence.
Accusando ad ogni piè sospinto la Cia e l’Fbi di accanirsi contro di lui nelle indagini sul Russiagate, sulle interferenze di Putin in suo favore durante la campagna elettorale, Trump si è fatto tanti nemici. Troppi perfino per lui. La teoria del Deep State o “Stato profondo”, molto in voga nella destra radicale alla Steve Bannon, descrive una sorta di cupola dell’amministrazione pubblica decisa a sabotare l’agenda politica di Trump. C’è qualcosa di vero, per esempio all’accanimento dei giudici nel bocciargli tanti decreti non è estraneo il fatto che molti di loro siano di nomina obamiana. Ma un conto è litigare coi magistrati o coi vertici della burocrazia. Altra cosa è inimicarsi i servizi segreti, la superpolizia federale, il controspionaggio.
Quelli, se vogliono vendicarsi, ti fanno male davvero. L’indagine sul Russiagate è tuttora in corso. Meglio fare un gesto di rispetto, mandare un segnale di docilità, accogliendo una richiesta così surreale, dettata solo dall’ossessione atavica di tutti i corpi separati per il culto della segretezza.
La Repubblica.
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