Consuelo Capecchi.

Lo Spazio di Via dell’Ospizio, Pistoia

Luce. Le sue opere ricreano la storia del venire al mondo di un filo d’erba come di un bambino, che dal ventre della terra o della madre si fa strada e provoca una ferita per arrivare a toccare l’aria.

 

comunicato stampa

Si può raccontare la luce?
Certo che la luce si può raccontare. E anche cucire, tessere, strappare. La luce si può accendere e spegnere. Si può disegnare, deviare, accogliere. La luce si può offrire, dissipare, cantare…
E mentre si gioca con la luce, la luce risuona e dà inizio, illumina, squarcia il buio, palesa la verità delle cose, può rendere felici o mostrare un dolore.

Così, nei dipinti a tecnica mista che Consuelo Capecchi ha deciso di creare per la sua ultima mostra – che, appunto, si intitola Luce – la stessa artista si racconta, narrando un percorso personale che diventa di tutti.
Bastano quattro opere più una a ri-creare la storia del venire al mondo di un filo d’erba come di un bambino, che dal ventre della terra o della madre si fa strada e provoca una ferita per arrivare a toccare l’aria.

E’ questa la strada che Consuelo ha vissuto, sasso per sasso, insieme a sua figlia (che, sì, si chiama Luce).
Una strada intrapresa con la felicità del gioco e d’improvviso diventata buia per una di quelle sorprese che ti catapultano nel regno del dolore e della paura. E ti conducono a varcare la porta della sofferenza, dentro un ospedale dove la vita è un grido.
Succede però anche che il buio si ritragga e che il passo si faccia deciso e indipendente, per uscire “a riveder le stelle”. E si ricomincia.
Giocando a campana fra le cicatrici.

Nelle opere esposte in sequenza narrativa nella mostra allestita ne Lo Spazio di via dell’Ospizio dal 14 dicembre al 10 gennaio, la luce di Consuelo crea dunque vibrazioni e ombre che vanno in senso divergente, ognuna per suo conto, perché, come afferma lei stessa, anche quando si è in due “il cammino è comunque solitario”. Può snodarsi parallelo, ma anche decidere direzioni differenti.
Come avviene in “Play”, il primo dei quadri di questa mostra-sentiero, dove la pagina di uno spartito musicale dedicato a chi inizia a suonare si strappa mostrando una lacerazione rosso sangue mentre, accanto, due esili figure proiettano ombre di segno contrario.
Play in inglese significa suono, gioco, inizio. Ma qui la musica si inter-rompe ed è un altro inizio.
“Play – dice Consuelo – racconta di quando si è in due e ci si chiede quale sarà la direzione per l’uno e quale per l’altro”. Con timore, magari, ma anche con curiosità.

Segue a questo pensiero “Ho un’idea”, piccola opera che racchiude in un cammeo di carta accartocciata il sogno che non ci siano ostacoli perché dall’uovo nasca, appunto, l’idea. Una bolla di luce dove l’altro si lascia cullare, mentre oltre le radici, al di là dell’orizzonte della terra, si proietta una foglia.

Ma accade che dalla vita arrivi qualcosa di inatteso che sconvolge l’idea e l’ideale.
Giunge con un “tin”, che è suono e terapia. Perché anche un dolore è un regalo che può curare.
“Tin” è una grande carta disseminata di bolle dove si cullano semi e bambini, cucite fra loro da un filo sottile in fondo al quale Consuelo ha deciso di lasciare l’ago che ha impugnato per trapassare la carta e che, se lei ormai conosce e domina, potrebbe bucare chi non sa della sua presenza.
Il filo parte dallo strappo di una bolla centrale, segnato di rosso, e si avvia verso l’alto a cercare la luce, senza dimenticare però di toccare e legare fra loro tutte le bolle-uova.
E’ il cordone ombelicale, il filo esilissimo a cui sta appesa la vita.

E poi c’è “…2 …3 …4”, ultima tappa titolata della narrazione, che racconta il giorno della nascita di Luce. Ci sono due mondi riflessi, sormontanti da parole, due ferite, una croce e ali che si specchiano talvolta duplicandosi.
“Ho creato questo quadro – racconta la giovane artista – pensando alla nascita di Luce. In alto c’è lei che esce dal mio taglio cesareo: due ferite aperte sulle nostre pance. Ferite che vengono alla luce per generare vita. La bimba si dondola da sola perché lei all’inizio era sola, senza di me e io sola senza di lei. Non potevamo goderci la stretta vicinanza madre figlia dei primi giorni dalla nascita”.
“…2 …3 …4”, perciò, come il giorno del 23 aprile in cui Luce è venuta alla luce. O “due, tre, quattro” ad evocare la danza bambina di “uno, due, tre… stella”.

L’ultima opera nella sequenza della narrazione, al momento in cui queste parole dalla tastiera passano allo schermo del pc non ha ancora un titolo. Lo avrà forse al momento dell’esposizione. O forse no.
Comunque sia, qui la luce esplode, diviene pura leggerezza e si rifrange in tante piccole opere-scaglie, ognuna delle quali ha vita propria.

Cartoncini appesi a fili o fermati da mollette di legno, dove frammenti di libri parlano sulle tracce essenziali del disegno e suggeriscono storie e atmosfere. E ci si perde a giocare fra un’àncora (o un “ancora”) che scivola dalle pagine di un vecchio libro in mezzo al mare e un pescatore che prende all’amo un frammento “spirituale”, un’altalena “soffice e sognante” e un’altra che si libra verso il cielo sotto nuvole di carta che dicono “Oh no, non fumo. Ma posso sorridere”. Si incontra una pioggia di chiavi “fresche come rugiada” seguita da un fulmine che arriva “nel bel mezzo di un sorriso”, nubi che narrano la “leggerezza del mare” su cui ci si può dondolare a testa in giù, una linea sottile che accenna il sentiero per “essere innamorata” e un aquilone che si leva da terra, fra alberi rotondi come uova (o bolle o palloncini) e oltrepassa le stelle mostrando una parola magica: “avventurarmi”.

Federica Mabellini

Inaugurazione 14 dicembre ore 17

Lo Spazio di Via dell’Ospizio
via dell’Ospizio, 26-28 Pistoia
lun-dom 9.30-13 e 16-20
ingresso libero