Città in movimento

Idee
«La comunità non vuole più aspettare ma intraprendere, sperimentare nuovi schemi, correre rischi. E superare la contrapposizione tra pubblico e privato»
Edifici abbandonati e spazi pubblici dismessi rivivono grazie alla creatività dei cittadini. Che, sfruttando nuovi strumenti di legge, danno vita a esperienze di rigenerazione urbana.
Dal Trentino alla Sicilia
Emanuele Coen
Bergamo un antico monastero trasformato in teatro e biblioteca. A Napoli una ex scuola di epoca rinascimentale diventata spazio per spettacoli e laboratori culturali. A Roma un parco archeologico in stato di degrado, in parte rigenerato e reso visitabile grazie a dei tour in bici. Rinascono a nuova vita ex ospedali, palazzi storici, giardini, fabbriche, caserme, padiglioni universitari, beni protetti dall’Unesco. Una goccia nel mare del patrimonio architettonico e culturale in disuso: sono infatti decine di migliaia, da Venezia a Palermo, i luoghi abbandonati perché gli enti pubblici che li possiedono hanno le casse vuote e non riescono a restaurarli, risanarli, organizzarli. E, soprattutto, sono a corto di idee. Una situazione peggiorata negli anni della crisi.
Oggi, però, comincia a tirare un’aria nuova, grazie alla spinta dal basso di associazioni, cooperative e gruppi spontanei di cittadini che fanno pressione sulle istituzioni per rigenerare le città attraverso la cultura, i servizi sociali, la tecnologia, il diritto all’abitare, dopo il fallimento delle politiche per la casa. È anche l’effetto di alcuni strumenti giuridici nuovi che cominciano a dare i primi frutti: i regolamenti e le delibere sui beni comuni urbani, sugli usi civici urbani e, in campo culturale, il nuovo codice degli appalti, il quale prevede l’attivazione di accordi di partenariato speciale, da parte del Mibact, tra istituzioni pubbliche, imprenditori civici e organizzazioni no profit, cittadini e mecenati per progetti culturali con funzione sociale. Sperimentazioni promettenti basate su un inedito modello amministrativo ed economico.
Apripista furono Bologna e Napoli, sei anni fa. Oggi sono più di 200 i Comuni che hanno approvato regolamenti sui beni comuni urbani o delibere sugli usi civici urbani, centinaia di patti di collaborazione. Un processo di rigenerazione che mette insieme pubblico, privato e comunità, imperniato sul principio di collaborazione civica previsto dalla Costituzione. Di recente li hanno varati a Reggio Emilia, Torino, Milano, Verona, Latina e Venezia, godono di un supporto trasversale che va dai Cinque Stelle al centrodestra, passando per il Pd. Segue questo fenomeno fin dal principio Christian Iaione, professore di Diritto urbanistico all’università Luiss Guido Carli, co-direttore di LabGov.City, LABoratorio per la GOVernance della città come un bene comune. Il gruppo di lavoro – composto da ex-allievi, studiosi ed esperti del settore – accompagna già da qualche anno questo sviluppo impetuoso. «Le comunità locali si sentono più capaci e manifestano una volontà di protagonismo», dice il professor Iaione, che spiega così la progressiva accelerazione: «I cittadini non vogliono aspettare ma intraprendere, prendere rischi, sperimentare nuovi schemi», aggiunge, anche se, sottolinea, regolamenti e delibere non bastano. «Sono necessari, ma non sufficienti. Occorrono nella pubblica amministrazione nuove strutture, nuovi modelli organizzativi, nuove capacità, nuove professionalità. A Reggio Emilia esistono i collaboratori e gli architetti di quartiere, a Torino le case di quartiere e gli artigiani sociali, mentre a Bologna c’è la fondazione per l’innovazione urbana e l’ufficio per l’immaginazione civica», prosegue il professore, che ha convinto la Luiss a istituire una laurea magistrale in Law, digital innovation and sustainability, proprio per formare queste nuove figure. Per cambiare le cose, tuttavia, serve anche una mentalità più aperta da parte delle istituzioni. Nella Città Alta di Bergamo, dietro una porticina anonima affacciata su una via affollata di turisti, si nasconde un vero tesoro: il Monastero del Carmine, grande complesso quattrocentesco in abbandono da decenni, che sta per rinascere grazie alla cultura. Il Teatro tascabile di Bergamo, infatti, fondato nel 1973 da Renzo Vescovi (scomparso nel 2005) sulla via aperta dal Teatr-Laboratorium di Jerzy Grotowski e dall’Odin Teatret di Eugenio Barba, ha firmato una partnership con l’amministrazione comunale della città lombarda per il recupero e la valorizzazione, ottenendo l’usufrutto gratuito per i prossimi vent’anni (con opzione per un altro ventennio). Il partenariato speciale è reso possibile dal nuovo codice degli appalti: una alleanza inedita tra il teatro, che dal 1996 ha messo le radici nell’ex monastero, il Comune e altri soggetti che hanno aderito in varia misura al progetto: cittadini, commercianti, imprese, fondazioni bancarie e enti pubblici. «Il budget per la realizzazione dei primi interventi è di 500 mila euro, raccolti tramite donazioni e bandi», dice Emanuela Presciani, responsabile organizzativa del Teatro Tascabile, mentre attraversiamo l’antico chiostro e le sale occupate dal cantiere. I soldi sono stati raccolti in buona parte grazie all’Artbonus, che consente di attrarre investimenti privati, donazioni a cui viene applicata una detrazione del 65 per cento. Sono in corso i lavori di recupero del primo dei tre lotti – la sala teatrale e la sala del Capitolo – che termineranno nell’estate 2020. Giusto in tempo per “Arcate d’arte” (giugno-agosto), la manifestazione di teatro, cultura , arte e cinema, in collaborazione con il Comune e alcune associazioni culturali. Poi i lavori proseguiranno, in maniera flessibile in base alle risorse che saranno raccolte: in programma c’è anche la creazione di una foresteria d’artista con 14 posti letto e una importante biblioteca teatrale specializzata con il Fondo Renzo Vescovi. «Il cardine di questa operazione è l’attività di ricerca del teatro, che costituisce il traino dell’intervento di restauro dell’immobile. È questa la novità: attraverso la cultura e inedite alleanze tra pubblico e privato, profit e non, si può ridare valore d’uso ai beni e contribuire al loro recupero, per la collettività», aggiunge Presciani.
Il Ttb di Bergamo sta facendo scuola: la Fondazione Fitzcarraldo, infatti, che ha accompagnato il Tascabile nella realizzazione del partenariato con il Comune, segue diverse nuove proposte analoghe in tutt’Italia, dal Trentino alla Sicilia. «Dopo il caso di Bergamo, si moltiplicano i progetti di partenariati speciali pubblico-privati per la valorizzazione del patrimonio culturale», dice Franco Milella, esperto di politiche pubbliche sui temi dello sviluppo locale e delle politiche di coesione europee, uno dei soci fondatori di Fitzcarraldo. Secondo Milella, la responsabilità della situazione attuale va attribuita soprattutto a una errata concezione del valore di questi beni, che ha ispirato le politiche pubbliche nazionali nell’ultimo quarto di secolo. I beni culturali, anche se restaurati, non vengono valorizzati a vantaggio delle comunità del territorio. «Su 198 mila beni immobiliari culturali censiti, oltre 141 mila giacciono in abbandono, vale a dire il 70 per cento», sottolinea Milella, che lavora al libro “Contro l’abbandono. Forme di partenariato per il riuso del patrimonio” (Editrice Bibliografica, in uscita entro il 2020), in cui afferma che negli ultimi 15 anni sono stati dispersi oltre 7 miliardi di euro per il recupero di beni che poi in gran parte sono rimasti chiusi al pubblico.
Le nuove norme del codice degli appalti, così come il boom dei regolamenti comunali per la gestione dei beni comuni, dimostrano come l’aria stia cambiando, ma c’è chi denuncia la mancanza di una strategia nazionale. «I regolamenti sono molto importanti ma non bastano. Serve una legislazione ad hoc, che consenta di generalizzare le migliori pratiche e le protegga da interpretazioni difformi da parte della magistratura contabile», afferma Vincenzo Santoro, responsabile cultura dell’Anci. Il rischio, insomma, è che prevalga il principio della “massima resa economica” del patrimonio pubblico in disuso, trascurando l’impatto sociale, culturale e occupazionale degli interventi.
Tra le città coinvolte nel cambiamento, Napoli è in prima fila. Rivisitando l’antica istituzione dell’ “uso civico”, l’amministrazione guidata dal sindaco Luigi de Magistris ha messo in piedi una nuova forma di governo partecipato, superando il modello di concessione pubblico-privato. Il primo a essere riconosciuto come bene comune, nel 2012, è stato l’ex Asilo Filangieri, un edificio cinquecentesco abbandonato per trent’anni dopo il terremoto del 1980 e poi occupato e rigenerato come spazio per cultura e spettacoli, tuttora molto attivo. In seguito, quattro anni fa, altri sette immobili di proprietà pubblica occupati da altrettanti centri sociali (che un tempo ospitavano una scuola, un convento, un ospedale psichiatrico, un carcere minorile, un conservatorio di musica, una villa e uno stabilimento balneare), sono stati riconosciuti dal Comune come beni comuni e quindi legalizzati. Una delibera controversa, a ridosso delle elezioni comunali, giudicata da molti un “regalo” ai centri sociali da parte del sindaco. «Il riconoscimento degli usi civici, così come gli interventi di creatività urbana intrapresi da questa amministrazione, contribuiscono a realizzare un progetto di cittadinanza basato sulla riappropriazione di spazi urbani, rigenerandoli e prendendosene cura», ribatte Carmine Piscopo, assessore Beni Comuni e Urbanistica. Inoltre, il Comune di Napoli ha costituito un Tavolo interassessorile della Creatività Urbana, per rilanciare la street art come fattore di riqualificazione della città, integrazione e reinserimento sociale. E ha approvato un disciplinare che regola le procedure per l’autorizzazione all’uso di superfici per disegni, murales, scritte. Una cornice giuridica che, secondo alcuni, contraddice il senso di un’arte in origine illegale. «Ribalterei la questione. Non c’è il rischio di ingabbiare la creatività, ma la risposta all’esigenza espressa dai territori di riappropriarsi degli spazi urbani con il supporto dell’amministrazione», ragiona Federica Cola, che fa parte dello staff di de Magistris e coordina il Tavolo Interassessorile. La rigenerazione urbana, come insegna la street art, passa dal presidio del territorio. E la cultura svolge un ruolo fondamentale. Quella di Marghera, nel Comune di Venezia, è una delle 45 biblioteche sparse per l’Italia vincitrici dell’avviso pubblico “Piano cultura futuro urbano” promosso dal Mibact. Un finanziamento di 63 mila euro per trasformare la biblioteca in una casa di quartiere itinerante, in una zona difficile impegnata nella riconversione del porto industriale, coinvolgendo scuole e associazioni, con il contributo come capofila di Save the Children, con il progetto Futuro Prossimo contro povertà educativa e dispersione scolastica. In programma la diffusione di conoscenze scientifiche e tecnologiche, la promozione di laboratori, svago, formazione permanente. «Marghera è un quartiere degradato, complesso, in trasformazione per la forte presenza di residenti stranieri», dice Barbara Vanin, responsabile della Rete Biblioteche Venezia, uno dei Comuni che ha approvato un regolamento per la gestione dei beni comuni urbani: «Investire nella biblioteca significa amplificare il ruolo di un servizio di pubblica lettura che oggi risponde ai bisogni informativi ma anche sociali dei cittadini».
In alcune città gli abitanti ,stufi di aspettare il regolamento sui beni comuni, si sono attivati in maniera spontanea. Come sempre, Roma fa storia a sé. Qui non si è ritenuto necessario approvare un regolamento o una delibera ad hoc, per diversi motivi inclusa la già fitta trama legislativa locale. «La capitale è come una intera nazione, ha una complessità economica, istituzionale e giuridica maggiore di tutte le altre città. Servirebbe non tanto un nuovo regolamento, bensì un maggiore coordinamento tra quelli esistenti e un programma di investimento sulle comunità. Oggi purtroppo i municipi sono solo uffici distaccati di Roma Capitale», riflette il professor Iaione, che con il laboratorio LabGov e insieme a Enea ha supportato – attraverso il progetto europeo Horizon2020 “OpenHeritage.eu” – la creazione di CooperACTiva, la prima cooperativa di comunità in un’area urbana nei quartieri Alessandrino, Centocelle e Torre Spaccata, nella periferia est di Roma, quadrante ad alto tasso di povertà. Insieme a lui e Urio Cini, presidente della Comunità Parco Pubblico di Centocelle, attraversiamo in bici il Parco Archeologico, 120 ettari con tre ville di epoca romana, protetto da vincoli archeologici e paesaggistici, che cerca di risorgere dopo decenni di degrado, grave inquinamento e abbandono, grazie alle battaglie del comitato Pac libero e altre organizzazioni. Proprio per il suo potenziale e le sue caratteristiche la comunità di Centocelle è stata inserita nella rete delle comunità di Faro, supportata dal Consiglio d’Europa. Cini si occupa della organizzazione e gestione dei bike tour nel parco, uno dei progetti per rigenerare l’area. «Crediamo che la cultura possa attivare meccanismi virtuosi, per rendere i nostri quartieri più vivibili», dice mentre sfreccia in bici mostrando i primi risultati ottenuti. «Sono sperimentazioni utili, concrete, ma servirebbe che il Paese si muovesse nella stessa direzione, con politiche nazionali», conclude Iaione, che invita a pensare in grande: «Se si attivano partenariati tra pubblico, privato e comunità si può pensare a nuovi modelli di mobilità, energia, servizi urbani e riqualificazioni urbanistiche di interi pezzi di città». Né pubblico, né privato, insomma. E quando le sfide diventano più complesse neppure le comunità da sole bastano, come professava il premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, la più importante studiosa dei beni comuni, scomparsa nel 2012. Oggi, forse, la via da lei indicata è più vicina.
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