Che cosa dite a chi ha perso il lavoro e non ne avrà altri?

di Giorgio Meletti

 

  • Mettetevi nei panni di uno dei 422 lavoratori della Gkn. Provate a guardare la chiusura di quella fabbrica da una casa operaia di Campi Bisenzio, periferia di Firenze, anziché da un ufficio climatizzato di Roma centro.
  • I 18 milioni di dipendenti lavorano mediamente 28 ore alla settimana, dice l’Istat, il che significa che si spartiscono le ore di lavoro (e il salario) di 12,5 milioni che lavorassero normalmente otto ore al giorno.
  • Mancano all’appello 6-7 milioni di posti di lavoro. C’è una disoccupazione sostanziale che a breve-medio termine non può che corrodere la tenuta sociale del paese. Inquieta la distrazione di tutta la classe dirigente. Spaventa l’abisso che la separa dalla realtà.

Mettetevi nei panni di uno dei 422 lavoratori della Gkn. Provate a guardare la chiusura di quella fabbrica da una casa operaia di Campi Bisenzio, periferia di Firenze, anziché da un ufficio climatizzato di Roma centro. Per quegli operai la perdita del lavoro è una catastrofe naturale, una malattia fulminante, una botta ineluttabile. Ti arriva la comunicazione sul telefonino e quell’istante separa un prima in cui lavori per una grande azienda tecnologica e un dopo in cui sei solo un disoccupato che non sa come dirlo ai suoi figli. Mettetevi nei suoi panni e pensate a una soluzione. Mettersi in gioco, come dice l’erede Barilla? Diventare imprenditore, magari a 58 anni? Telefonare a un navigator? La vera tragedia è che anche le istituzioni pubbliche, il governo, i sindacati e la politica tutta si accostano al capezzale degli ammalati con compunte espressioni di cordoglio impotente. Neppure loro sanno che cosa fare. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando, considerato il più a sinistra del governo, non è andato oltre l’evocazione di vari tavoli. I malati della malattia inguaribile, cioè i licenziati di Campi Bisenzio, si sono ribellati alla trappola della solidarietà inutile e beffarda, dandosi una parola d’ordine che dovrebbe far riflettere tutta la classe dirigente: “Insorgiamo”.

LA DISPERAZIONE

Provate ora a calcolare quanto è diffusa questa disperazione. Non è facile, perché la fotografia della sofferenza sociale che ci offre ogni giorno l’Istat è un po’ sfocata. Per esempio, secondo l’istituto di statistica i disoccupati in Italia sono 2,3 milioni, secondo l’Anpal (l’agenzia statale per le politiche attive del lavoro) sono, più credibilmente, 5,3 milioni. Le rilevazioni sul mercato del lavoro sono vaghe, ma le indicazioni sono convergenti. Dei circa 18 milioni di lavoratori dipendenti 2,6 milioni sono a tempo determinato, quasi 3 milioni subiscono il part time, costretti a lavorare poco e guadagnare poco. Ma l’Istat considera occupato chi lavora anche un’ora in una settimana. E allora prendiamo la calcolatrice. I 18 milioni di dipendenti lavorano mediamente 28 ore alla settimana, dice l’Istat, il che significa che si spartiscono le ore di lavoro (e il salario) di 12,5 milioni che lavorassero normalmente otto ore al giorno. Il sogno del ’68 “lavorare meno, lavorare tutti” è stato realizzato dalle multinazionali globalizzate, con la piccola differenza che allora si sognava di lavorare meno a parità di salario, oggi si è affermato il modello del “lavorare meno, guadagnare molto meno”. Mancano all’appello 6-7 milioni di posti di lavoro. C’è una disoccupazione sostanziale che a breve-medio termine non può che corrodere la tenuta sociale del paese. C’è in giro una sofferenza che non si placa con gli annunci sui mirabolanti effetti del Pnrr, sulla pioggia di denaro dall’Europa. Ma l’attenzione del governo e dei partiti è concentrata sulle solite bandierine da sondaggio: prescrizione, legge Zan, elezioni amministrative. Inquieta la distrazione di tutta la classe dirigente. Spaventa l’abisso che la separa dalla realtà.