“cattolico malpensante, ma senza crisi”

Forse una rilettura, in questo momento di grande confusione nei rapporti fra Stato e Chiesa, non farebbe male. Lo consiglierei anche a chi scrive le delibere o i regolamenti per conto dell’amministrazione comunale di Siena.

Il padre, siciliano di Ragusa, fu ragioniere di prefettura a Siracusa, poi funzionario al ministero della Marina a Roma. La madre, figlia di Leone Sacerdoti e di Marietta Momigliano, piemontese di Ceva, era insegnante elementare, e faceva parte della vasta famiglia cui appartennero Attilio, Felice e Arnaldo Momigliano (Cavaglion, Felice Momigliano…passim; Id., Ebrei senza saperlo, pp. 106 s.); di religione ebraica, si convertì al cattolicesimo in tarda età. Sposata con il rito civile, fece battezzare il figlio a sette anni, dopo la morte della propria madre.

A Roma lo J. frequentò le ultime classi elementari alla scuola di via Gesù e Maria (la madre lo aveva preparato in casa per prima e seconda) e il ginnasio all’E.Q. Visconti. Sul finire del 1905, dopo la morte del padre non ancora quarantenne, si trasferì a Torino dove seguì le ultime due classi liceali al classico V. Alfieri. Vi ebbe, tra gli insegnanti, l’italianista L. Piccioni e il filosofo P. Martinetti. Nel 1907 si iscrisse alla facoltà giuridica: tra i docenti dello J. devono annoverarsi A. Loria, G.P. Chironi, L. Einaudi (al quale lo legò poi una lunga amicizia), F. Patetta, G. Mosca e F. Ruffini, con il quale preparò e discusse una tesi di diritto ecclesiastico (“La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia, 1848-1888”), laureandosi con 110, lode e dignità di stampa, l’11 luglio 1911. Nel periodo universitario frequentò anche, presso la facoltà di lettere, i corsi di A. Graf, A. Farinelli, P. Toesca, G. Vidari.

Al piccolo mondo ebraico di Ceva e Mondovì, il mondo della nonna materna e della “vasta cerchia del cuginato”, che ritrovò nel periodo torinese, sono dedicate alcune delle “Più vecchie storie” rievocate nei suoi “ricordi” apparsi sul finire degli anni Sessanta (Anni di prova, Vicenza 1969). Di quel periodo e di quella Torino, che lo J. definisce “gozzaniana”, vanno segnalati i “grandi maestri”, menzionati in più scritti, che, alla facoltà giuridica nel corso dei primi trent’anni del Novecento e in quella di lettere, formarono alcune personalità eccezionali (da P. Gobetti ad A. Gramsci, da D.L. Bianco a L. Ginzburg e C. Pavese, da A. Galante Garrone a N. Bobbio). Centrale fu, nell’esperienza dello J., il pensiero di B. Croce corretto, però, dall’impostazione di Ruffini e, soprattutto, dall’intenso sodalizio spirituale che stabilì con E. Buonaiuti (Lettere di E. Buonaiuti…, a cura di C. Fantappiè; Fantappiè, A.C. J. e il modernismo).

Il 29 dic. 1911, in seguito a concorso, lo J. venne nominato segretario di IV classe nell’amministrazione del Fondo per il culto presso il ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti, allora diretta dal barone C. Monti. Qualche mese dopo, però, lo J. entrò, sempre per concorso e con lo stesso grado, al ministero dei Lavori pubblici, dove rimase fino al 15 ott. 1920. Nel 1913 vinse una borsa di studio per perfezionamento all’estero, nel 1915 venne promosso alla I classe e, nel 1919, primo segretario. Dopo la parentesi della prima guerra mondiale – che, nonostante il convinto impegno neutralista tra i collaboratori di Italia nostra di C. De Lollis, lo vide in prima linea e, dopo Caporetto, prigioniero nel campo di Plan – fu a Parigi e a Vienna, come “giureconsulto” della delegazione italiana alla Commissione delle riparazioni, tra il 1919 e il 1920.

Scrivendo da Vienna alla futura moglie, Adele Morghen, si definisce “antibloccardo, anticonservatore e anti-interventista” (3 ag. 1920), e aggiunge: “vorrei prendere per mano qualcuno dei retori che s’indignarono per le parole [di Benedetto XV] inutile strage: p. Semeria, p. Genocchi, qualche altro tra i ciarlatani che, in veste di sacerdoti cristiani, predicavano la santità della guerra e l’accordo tra guerra e Vangelo, e vorrei dire loro, bonariamente, di guardare questo epilogo di guerra” (17 ag. 1920), una guerra cui non poté “mai perdonare […] il culto della violenza, il disprezzo per le ideologie, il basso materialismo, con cui ha inchiodato a terra spiriti ch’erano adatti a più alti voli” (27 ag. 1920).

Nel 1920 I. Bonomi, ministro della Guerra, lo richiese al suo gabinetto, ma il ministro dei Lavori pubblici non concesse il distacco. In quello stesso anno, nel maggio, tuttavia, lo J. – libero docente a Torino nel 1916, trasferito a Roma nel 1919 – aveva vinto il concorso a professore straordinario di diritto ecclesiastico nell’Università di Sassari (all’epoca aveva già pubblicato il volume storico Stato e Chiesa negli scrittori politici del Seicento e del Settecento [Torino 1914] e la solida monografia giuridica su L’amministrazione ecclesiastica nel Trattato di diritto amministrativo a cura di V.E. Orlando [Milano 1912-20, in fascicoli], nonché una serie di lavori storici e di diritto canonico medievale). Chiamato a Sassari il 16 nov. 1920, dopo un primo tentativo a Siena, il 24 marzo 1923 si trasferì all’Università di Bologna, dove restò, con un breve passaggio sulla cattedra di diritto amministrativo nel 1925 e con la parentesi degli anni accademici 1925-26 e 1926-27 alla Cattolica di Milano, fino al 1933.

Fu questo un periodo decisivo per lo sviluppo della sua forte e complessa personalità di studioso, docente e intellettuale, durante il quale iniziò anche quella parallela attività di avvocato che continuò praticamente fino alla morte e che gli valse non solo un grande nome tra i professionisti, ma pure gli consentì di tenere sempre insieme la speculazione scientifica con l’esperienza giuridica diretta. Di essa testimonia la rubrica che tenne, per molti anni, sulla Rivista di diritto civile, con il titolo Gli occhiali del giurista (poi in volume, I-II, Padova 1970 e 1985).

Il 31 ott. 1921 Buonaiuti aveva celebrato il suo matrimonio con Adele Morghen (sorella dello storico del Medioevo Raffaello, insegnante elementare a Nepi) che lo J. aveva incontrato nel gruppo di giovani più vicini al sacerdote modernista. Dalla loro unione sarebbero nati tre figli: Adele Maria, Guglielmo Luigi e Viviana.

A Buonaiuti, figura centrale del modernismo italiano, lo J. fu profondamente legato e a lui restò costantemente vicino, a onta di tutti gli ostracismi e di tutte le scomuniche.

Se nel biennio 1919-21 lo J. aveva intensamente partecipato “all’esperienza comunitaria cristiana nella così detta koinonìa” (Fantappiè, pp. 89 s.), costituita da un gruppo di discepoli del Buonaiuti, ed era stato coinvolto “negli ideali di condivisione e fratellanza evangelica” di esso (ibid., p. 90), negli anni successivi sia il trasferimento a Bologna sia alcuni dissensi di tipo “teorico-storico” lo portarono ad allontanarsi dalle posizioni del Buonaiuti, al quale però rimase umanamente legato (ibid.). Inoltre, “assumendo la separazione tra i valori religiosi e i valori politici come il postulato storico centrale del cristianesimo, il secondo Buonaiuti fornì a Jemolo, pur con una serie importante di distinguo, gli argomenti più efficaci per la maturazione della sua coscienza laica” (ibid., p. 107). La vitalità del legame è comunque testimoniata dal ricco carteggio (Lettere…, cit.), che va dal 1921 al 1941, e dall’introduzione alla ristampa delle polemiche “memorie” del Buonaiuti (Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, a cura di M. Niccoli, Bari 1964).

Al periodo di più intenso sodalizio con Buonaiuti appartengono le ricerche che portarono alla pubblicazione della monografia Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione (Bari 1928).

Nell’opera, che si ricollegava agli studi del Ruffini sul giansenismo, lo J. definisce il movimento di riforma religiosa l'”ultimo fiotto del medioevo” e si contrappone alla storiografia, capeggiata soprattutto da E. Rota, che vedeva nel giansenismo le origini della modernità e dello stesso Risorgimento. Presentando l’opera in La Critica (XXVI [1928], p. 353) G. De Ruggiero, pur riconoscendo che il volume segnalava il rinnovamento della storiografia “sotto l’influsso della nuova cultura filosofica”, criticava la rivendicazione del carattere puramente religioso del movimento fatta dallo Jemolo. Padre A. Gemelli, dal canto suo, lo definiva “lavoro sterile” di “un’anima vittima delle illusioni modernistiche” (in Rivista di filosofia neoscolastica, XX [1928], pp. 364 s.) e coglieva l’occasione per dichiarare che il Manuale di diritto ecclesiastico, edito dallo J. (il riferimento è ad A. Galante, Manuale di diritto ecclesiastico, 2ª ed., per cura di A.C. Jemolo, Milano 1923), era “avvelenato dal sottile e caustico ed ironico spirito del liberalismo”. Eppure, solo qualche anno prima, aveva usato ogni mezzo per averlo come docente nella neonata facoltà di giurisprudenza dell’Università cattolica (F. Margiotta Broglio, A.C. J. e V. Del Giudice, in L’insegnamento del diritto canonico all’Università cattolica del S. Cuore, a cura di C. Minelli, Milano 1992, pp. 228-246).

Nel 1925 lo J. fu, con Ruffini, M. Falco e V. Del Giudice, docenti di diritto ecclesiastico, e con altri giuristi come P. Calamandrei, A. Levi, G. Chiovenda, E. Finzi, e S. Trentin, tra i firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Croce.

Ripubblicando il suo Crispi (1ª ed., Firenze 1922; 2ª ed. aggiornata, ibid. 1972), lo J. scrisse di voler fare anche “una specie di pubblica confessione di peccati di giovinezza”: a chi aveva citato passi dell’opera su F. Crispi come prova di un atteggiamento “di benevola attesa, di anticipazione del fascismo”, replicava di non essere caduto nell’errore di previsione in cui pure caddero “egregi uomini, tanto migliori di me” che, dal gennaio del 1925, furono però fermi e coraggiosi oppositori della dittatura. Confessando di avere subito, tra il 1912 e il 1914, il “fascino del nazionalismo”, e l'”impronta della eccitata polemica neutralista-interventista dei mesi a cavallo del gennaio 1915″, lo J. ricordava come alla vigilia della marcia su Roma fosse “venuta meno la fiducia che le cose si aggiustassero da sé, si ritornasse all’epoca in cui l’Italia era retta da Montecitorio, sicché quando si dava una maggioranza sicura, la pace interna fosse assicurata”. Con altri “nostalgici dell’Italia risorgimentale” aveva se mai pensato a una soluzione militare, a un generale (Enrico Caviglia) a capo del governo che occupasse, obbedendo a un dovere, “la posizione pericolosa, ben lieto di riconsegnarla poi ad uomini politici quando la situazione era ritornata normale”.

Nel luglio del 1933 la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma lo chiamò con voti unanimi a succedere, dal 1° novembre successivo, a F. Scaduto, fondatore col Ruffini della scienza del diritto ecclesiastico italiano su tale cattedra, che avrebbe ricoperto fino al 30 ott. 1961.

Gli anni del fascismo e della guerra furono vissuti all’insegna del pessimismo e della sofferenza e le leggi razziali, con la persecuzione degli ebrei, spinsero lo J. a una decisa svolta metodologica: “allorché ho visto di che lacrime grondasse e di che sangue la voluntas legis, ho avuto solo la preoccupazione di cercare, per quel pochissimo che l’opera del giurista poteva, d’impiegarla a stornare un po’ dei frutti amari della legge. E dopo il tragico 9 sett. 1943 anche il precetto kantiano che escludeva la menzogna a fin di bene non ha frenato alcuni di noi: abbiamo fatto atti falsi, giurato per la formazione di atti notori spuri, senza avere alcuna crisi di coscienza, senza neppure temere di cadere in peccato” (Attività intellettuale e vita morale, in Archivio di filosofia, XIV [1945], p. 119).

Nel 1949 vinse il premio Viareggio per la saggistica con il volume Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni (Torino 1948; più volte aggiornato e ristampato).

Quest’opera ha rappresentato, e rappresenta, l’unica sintesi valida della storia dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica dal Piemonte di Carlo Alberto alla Repubblica del 1948 e, nelle successive edizioni, all’età di Giovanni XXIII, Paolo VI e del concilio Vaticano II. C. Morandi scrisse che, con quest’opera, “il liberalismo italiano” veniva a constatare “l’esaurimento del suo compito storico […] nei confronti della Chiesa e della massa cattolica del paese” (in Il Ponte, V [1949], p. 130). La Civiltà cattolica non esitò a manifestare serie riserve sull’ortodossia dello J., ma alla sua scomparsa L’Osservatore romano (14 maggio 1981) parlò di “opera giudicata di eccezionale valore” e S. Pertini, presidente della Repubblica, in una lettera alla moglie, parlò di lui come di “una presenza stimolante per quanti, come me, attendevano di conoscere la sua opinione sempre ricca di ammaestramenti e di saggezza”.

Nel dopoguerra lo J. condusse una costante battaglia civile sulle più impegnate riviste della cultura laica (dal Politecnico di E. Vittorini a Belfagor di L. Russo, dal Mondo di M. Pannunzio all’Astrolabio di F. Parri, dal Ponte di M. Calamandrei alla Nuova Antologia di G. Spadolini), nonché nel quotidiano La Stampa di Torino (dove pubblicò oltre 1200 articoli dal 1955 al 1981).

Questa lunga battaglia lo vide in prima linea contro la “legge truffa” e, poi, a favore del divorzio e si concluse, dolorosamente, con la seconda edizione accresciuta, apparsa postuma con introduzione di G. Spadolini, del volume Questa Repubblica. Dal ’68 alla crisi morale (Firenze 1981). Nell’epilogo scriveva: “Sono svanite le grandi speranze che nutrivamo alla fine della seconda guerra mondiale […] quando rievoco i molti che divisero con me le grandi speranze del 1945 e degli anni immediatamente seguenti, penso che sono stati amati da Dio quelli che hanno chiuso gli occhi in tempo per non vedere l’Italia del 1978” (p. 301).

A riposo dal 1966, venne nominato dalla facoltà professore emerito il 12 dic. di quell’anno.

Lo J. morì a Roma il 12 maggio 1981.

Nel 1959 gli era stata conferita la medaglia d’oro di I classe per i benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte; nel 1973 la penna d’oro. La brevissima presidenza della RAI – Radio audizioni Italia (qualche mese tra il 1945 e il 1946) fu l’unica carica pubblica da lui ricoperta.

Se guardiamo al complesso della sua opera – le bibliografie, largamente incomplete, registrano quasi settecento titoli tra il 1911 e il 1980 – è possibile constatare, con qualche approssimazione, che circa la metà dei suoi scritti è dedicata ad argomenti giuridici, mentre l’altro cinquanta per cento si divide tra storia, politica e costume, con prevalenza della ricerca storica. Tra gli scritti giuridici vanno ricordati, oltre ai molti volumi dedicati al diritto matrimoniale canonico e civile, alla già menzionata Amministrazione ecclesiastica e all’opera su La crisi dello Stato moderno (Bari 1954), le numerose edizioni delle sue esemplari Lezioni di diritto ecclesiastico (1ª ed., Città di Castello 1933), puntualmente aggiornate e ristampate fino al 1976.

Complessa la sua posizione verso la Chiesa di Roma e il Papato, dei quali fu studioso da più angoli visuali. Fortemente critico verso Pio XI, perplesso e lontano rispetto a Pio XII – di cui apprezzò peraltro le aperture de re Biblica -, considerò il pontificato Roncalli uno dei due soli periodi radiosi della sua esistenza (l’altro era stato il biennio delle grandi speranze 1944-46). Con G.B. Montini aveva avuto rapporti amichevoli e frequenti durante la guerra: divenuto Paolo VI, il pontefice citò più volte scritti dello J. nelle sue allocuzioni. E di Montini lo J. tracciò un profilo articolato, inquadrandolo nel papato del Novecento; per lui Paolo VI non fu mai “suscettibile di subire vere influenze […] tempra d’acciaio malgrado la naturale dolcezza, la condiscendenza a tutti ascoltare e cercare di comprendere […] portato a profonde, affettuose amicizie”, capace di “apprezzare e riconoscere ottimi cattolici in modi diversi” (cfr. Introduzione ad Anni e opere di Paolo VI, Roma 1978): il “modo”, fra gli altri, in cui lo fu lo J., che amava definirsi “cattolico malpensante, ma senza crisi” e che aveva, in qualche modo, assorbito la lezione postmodernista (Fantappiè, p. 109). Interessato alle esperienze di A. Capitini, di F. Tartaglia, di R. Pettazzoni, ma anche all’impegno di P. Mazzolari, di don L. Milani, e di padre E. Balducci, lo J. conservava una sua originale posizione: “mantenere la comunione con la Chiesa ma, al tempo stesso, operare dal di dentro per riformarla ossia per favorire nel suo corpo quella maturazione necessaria ad elevarne lo spirito religioso e adeguarne le strutture al mondo presente: il tutto nella profonda consapevolezza storica dei gravi ostacoli che una riforma religiosa avrebbe incontrato in Italia” (ibid., p. 110). Difficile, comunque, definire la sua “religione”: in una lettera del gennaio 1942 ai due figli maggiori protestò contro “chi asserisce ch’egli va in Chiesa, ma non crede in niente” e scrisse che “non è proprio vero che il suo pensiero religioso si possa sintetizzare così. Perché sarà la sua una coscienza religiosa che fa al lato del sentimento un gran posto, e che difende i diritti del sentimento anche quando non abbiano una base razionale, ma non è affatto una coscienza religiosa che crede che questo lato del sentimento sia qualcosa di fittizio[…] No, per me il lato razionale è il lato illuminato, ove riusciamo a vedere, ma il lato irrazionale non è affatto meno reale, per ciò che non conosciamo le leggi che in esso dominano” (copia presso l’autore di questa voce).

Ancora più complesso individuare la “famiglia” politica alla quale appartenne. Di là dalla facile etichetta di seguace del cattolicesimo liberale – del tutto inadeguata per chi ebbe più volte a sottolineare il contrasto insanabile tra sentire cattolico e sentire liberale – dev’essere ricordato che nella prima giovinezza, pure irritato dall’anticlericalismo di pessimo conio allora corrente, fu avverso a ogni clericalismo e non volle mai iscriversi “ad un circolo che avesse un assistente ecclesiastico”. Nel 1919 rifiutò di aderire al Partito popolare di Sturzo e, nel 1944, non accolse i molti inviti a essere fra i primi iscritti alla Democrazia cristiana, per la quale dichiarò di non avere mai votato. In rapporto con i giovani della sinistra cristiana – al cui organo Voce operaia collaborò in più occasioni -, così spiegò al figlio il voto senza illusioni, nelle elezioni del 1948, per il Fronte popolare: “dopo essermi mangiato il fegato per il fascismo durante tutti quelli che avrebbero dovuto essere gli anni più belli della mia vita, non me la sento di concorrere alla resurrezione di tutti i gros bonnets del fascismo che ad uno ad uno De Gasperi rimette ai vecchi posti; e soprattutto al vedersi ripetere la manovra del 20-21, il sacrificio di tutte le libertà per la paura dei rossi” (in La Repubblica, 17 giugno 1989). Avversario della scelta atlantica, nelle elezioni politiche del 1953 fu, con Parri, A. Codignola e Calamandrei, nella lista di Unità popolare contro la legge truffa; e in quelle del 1958 fra i candidati dell’alleanza tra radicali e repubblicani disegnata da U. La Malfa. Quanto ai comunisti, scrisse ancora al figlio nel 1948, “chi ha nel sangue il veleno razionalista e la necessità di tutto criticare, non potrà mai essere dei loro” (ibid.). Il suo sentire politico – prescindendo dall’originaria vicinanza a Ruffini, De Lollis, Albertini – fu assai prossimo a quello di Calamandrei e Salvemini, di A. Monti e di T. Codignola, di E. Rossi e di G. Calogero: per gli azionisti, del resto, preparò nella collana “Quaderni del Partito d’azione” uno studio su Il decentramento regionale (Roma 1944). Ma fu un sentire segnato dalla perenne ricerca, dalla continua insoddisfazione, dall’affermare mai categorico, dal rifiuto di chiudere il sentire politico in un pensiero omogeneo e ben definito.

Fonti e Bibl.: I documenti relativi alla carriera dello J. sono conservati negli archivi delle Università di Sassari, Bologna, Milano (Cattolica, Carte Gemelli), Roma “La Sapienza”, nel relativo fascicolo dell’Ufficio personale. Le lettere alla moglie citate sono in Roma, Arch. centrale dello Stato, Carte Jemolo, f. 1, sottofasc. 2, ins. 4, b. 4 (corrispondenza Carlo / Adele Morghen); il fondo è, inoltre, ricchissimo di corrispondenze con alcune fra le maggiori personalità della cultura del Novecento. La bibliografia dello J., pubblicata in appendice a Raccolta di scritti in onore di A.C. J., I-IV, Milano 1963, deve essere integrata con S. Ferrari, Scritti di A.C. J. (1963-1980), in Nuova Antologia, gennaio-marzo 1981, pp. 101-103. Fondamentale lo scritto autobiografico Anni di prova (cit.; rist., con prefaz. di F. Margiotta Broglio, Firenze 1991). Prezioso J. testimone di un secolo, a cura di G. Spadolini, Firenze 1991; significativi: A.M. Jemolo Lombardo Radice, Viva la tartaruga, Roma-Città di Castello 1980; G. Meriana, Lettere da casa Jemolo. Storia di un’amicizia, Genova 1991; A.C. Jemolo, Figli e padri, a cura di G. Dalla Torre, Roma 1984 (cfr., in proposito, S. Quinzio, Il profeta ascoltato dai laici, in La Stampa, 17 luglio 1984); essenziale S. Ferrari, Ideologia e dogmatica nel diritto ecclesiastico italiano, Milano 1979, ad indicem. Ulteriori indicazioni bibliografiche in S. Lariccia, Diritto ecclesiastico italiano. Bibliografia 1929-1972, Milano 1974.

Vedi ancora: L. Salvatorelli, E. Buonaiuti pellegrino di Roma, in La Cultura, s. 5, XII (1933), pp. 387 ss.; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino 1962, pp. 596-599; R. De Felice, Il “Crispi” di J., in Corriere della sera, 1° ott. 1970; E.R. Papa, Fascismo e cultura, Padova 1974, pp. 211-230; A.C. J., dalla pianta di Buonaiuti, in La Stampa, 12 sett. 1975; L. De Luca, Diritto ecclesiastico ed esperienza giuridica, Milano 1976, ad ind.; G. Spadolini, La questione del concordato con i documenti della Commissione Gonella, Firenze 1976, ad ind.; N. Bobbio, Trent’anni di storia della cultura a Torino, 1920-1950, Torino 1977, ad ind.; Storia e dogmatica nella scienza del diritto ecclesiastico. Atti del Convegno, Taormina… 1981, Milano 1982, ad ind.; L. de Luce, J. “canonista”, in Il Diritto ecclesiastico, 1982, pp. 29 ss.; R. Morghen, A.C. J., storico dello Stato e della Chiesa, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXXV (1982), pp. 49-60; F. Margiotta Broglio, J. e “Voce operaia”, in Nuova Antologia, aprile-giugno 1983, pp. 143-163; A. Galante Garrone, I miei maggiori, Milano 1984, ad ind.; I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia tra Otto e Novecento, a cura di A. Mazzacane, Napoli 1986, ad ind.; N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino 1986, pp. 111-127, 141-163; Dottrine generali del diritto e diritto ecclesiastico. Atti del Convegno… 1986, Napoli 1988, ad ind.; F. Margiotta Broglio, Fascismo, antifascismo e concordato in una lettera di V. Del Giudice ad A.C. J., in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1988, pp. 129-133; A. Cavaglion, Felice Momigliano. Una biografia, Napoli-Bologna 1988, ad ind.; A.C. Jemolo, Lettere dall’Italia democristiana, con una nota di Andrea Jemolo, in La Repubblica, 17 giugno 1989; F. Margiotta Broglio, L’Italia di J., in Corriere della sera, 17 genn. 1991; Giornata Lincea nel centenario della nascita di A.C. J., Roma 1993; A. Galante Garrone – M.C. Avalle, A.C. J. (con lettere ad A. Bertola), Torino 1994; Lettere di E. Buonaiuti ad A.C. J., a cura di C. Fantappiè, Roma 1997; M. Di Giacomo, Lettere a un professore. Il carteggio tra A.C. J. e don L. Milani, in Nuova Storia contemporanea, II (1998), 4, pp. 101-116; C. Fantappiè, A.C. J. e il modernismo, in Il Diritto ecclesiastico, CX (1999), pp. 83-110; A. D’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Torino 2001; R. Vivarelli, La generazione di M. Bracci, in M. Bracci nel centenario della nascita, Bologna 2001, pp. 24 s.; A. Cavaglion, Ebrei senza saperlo, Napoli 2002, pp. 106-144; S. Dazzetti, Gli ebrei italiani e il fascismo, in Diritto, economia e istituzioni nell’Italia fascista, a cura di A. Mazzacane, Baden-Baden 2002, pp. 220-254; A. Pedio, La cultura del totalitarismo imperfetto, Milano 2002, pp. 195 ss.; M.S. Piretti, La legge truffa, Bologna 2003, pp. 54, 169-193.

 

di Francesco Margiotta Broglio – Dizionario Biografico degli Italiani