Cade la Vela verde ma non basta per abbattere Gomorra

Scampia
di Roberto Saviano
Inizia l’abbattimento della Vela verde ma non sarà usato il tritolo. Non funzionò — o meglio funzionò male — quando fu utilizzato per abbattere la prima Vela. Partì la prima carica ma la Vela rimase su, immobile. Ci volle una potente seconda carica per farla andare giù. Era il 1997, c’era Bassolino sindaco, l’evento portò il presidente Scalfaro a Napoli (altre due furono abbattute: una nel 2000 e una del 2003).
Ora, ventitré anni dopo, stesso evento con la Vela verde, e come allora si parla di rinascita dal quartiere. È una giornata storica, certo, ma decreta il fallimento delle politiche di riforma del quartiere, non il trionfo. Le Vele non sono responsabili del male di Scampia. Ma perché dovrebbero esserlo? Furono costruite tra il 1962 e il 1975, le progettò Franz Di Salvo, un geniale architetto che fu animato, nel disegnarle, dallo spirito architettonico del tempo, l’ Existenzminimum . Ossia provare a ridurre l’appartamento — dove si sarebbe svolta la vita — al minimo indispensabile; l’alloggio, ricavato quindi con una spesa costruttiva contenuta, doveva avere come perno principale dell’esistenza abitativa il “fuori”. La vita doveva svolgersi fuori, collettivamente. Napoli era già così, era il simbolo di questa articolazione abitativa. Di Salvo progettò le Vele con il preciso intento di ricostruire lo spirito dei vicoli in un condominio. Ballatoi sospesi nel vuoto su cui insistevano le scale che portavano agli appartamenti: erano come vicoli sospesi. Sbagliava, Di Salvo? Beh, se vedete le Vele gemelle di Villeneuve-Loubet, in Costa Azzurra, sono tra gli appartamenti più ambiti d’Europa. Certo, direte: si trovano in un luogo turistico, dinanzi al mare e con altro tipo di abitanti. Eppure era una zona degradata quando partì il progetto abitativo, bisognava portarci molte persone per far rinascere quel frammento di terra abbandonato e poterle far sentire immediatamente comunità. Così fecero. E funzionò.
Cosa non ha funzionato a Scampia? Molte cose. In questi decenni, si è a lungo discusso se il piano abitativo fosse stato criminogeno, ossia complice di ciò che poi è divenuta Scampia. Bisogna però andare per gradi: le Vele non furono realizzate come il piano prevedeva. Anzi le aree verdi furono trascurate, furono cassati i centri scolastici, i servizi, le chiese, vennero cancellati gli spazi comuni che ogni sei piani avrebbero dovuto realizzarsi. I blocchi furono messi uno vicino all’altro e non alla distanza prevista, rischiando in molti casi di compromettere la luce nelle abitazioni. Ma non furono questi i veri problemi che resero le Vele il centro e il simbolo del degrado e della camorra. Il Comune iniziò a dare appartamenti non ancora completati con servizi igienici, senza luce e senza gas. Poi venne il terremoto del 1980 e le abitazioni furono prese d’assalto da famiglie senza casa. Porticati si trasformarono in alloggi di abitazioni abusive con appartamenti sovraffollati e sempre più degradati.
Poi accade la terribile rivoluzione criminale di Aniello La Monica, Anielluccio o’pazz . Siamo negli anni Ottanta e La Monica è un giovane boss nemico della Nuova camorra organizzata, appartiene alla Fratellanza napoletana, quella che poi i media racconteranno come «Nuova famiglia ». Gli viene assegnata la sua zona d’origine: Scampia. Non c’è molto da fare, pochi negozi (lui stesso ne ha uno che ha battezzato Python, come la sua magnum preferita), abitanti senza soldi, mercato scarso. E soprattutto: i profitti dell’edilizia popolare che arrivano dalla fornitura di materiale, macchine e manodopera li deve smezzare — per obbedienza gerarchica — con i capi del fronte cui appartiene.
La Monica comprende che quei grandi spazi non sono angusti vicoli dove la polizia può, con facili blitz, arrestare tutti. Comprende che quei palazzi possono diventare suoi presìdi, comprende che può contare su una manodopera affamata e disposta a lavorare per pochissime lire. Quindi, prima inizia a trasformare Scampia in un grande magazzino di sigarette di contrabbando. Poi prova a dividere le zone assegnando a ogni suo uomo un territorio di competenza.
Aniello comprende che la vendita di droga può essere il punto di forza di un’area vasta, manodopera a costo quasi zero e facile controllo del territorio. Sono gli anni dell’eroina e Scampia comincia a importarne a tonnellate. Aniello ha paura, troppa paura di indispettire i vertici della Nuova famiglia e quindi frena le ambizioni dei suoi uomini, prova ad agire con prudenza: ed è qui che il suo figlioccio, Paolo Di Lauro (hanno una decina d’anni di differenza, ma Aniello l’ha di fatto adottato), e il gruppo di suoi sodali decidono di farlo fuori.
Da allora il regno di Di Lauro per anni e anni si organizzerà sfruttando il territorio. Sentinelle, pali, depositi. Tutto nell’area ghetto di Napoli che diventerà il mercato della droga più florido del mondo occidentale. Un’aria di degrado estremo si combina con miliardi di lire (e poi milioni di euro) fatturati con la droga. Non solo, ma la particolarità criminale di Scampia diventa quella di attirare consumatori di eroina da tutte le parti d’Italia e compratori di droga anche all’ingrosso (cosa praticamente impossibile in qualsiasi altra parte d’Italia, a meno di non entrare direttamente in relazione con i narcotrafficanti). Abbattere le Vele è un gesto simbolico che ricorda il fallimento di un progetto, anzi di più progetti: quello iniziale, di costruire un quartiere nuovo e a misura d’uomo, e quello di restituire queste strutture alla comunità facendole diventare spazi universitari, palazzi dello Stato.
Recuperare le Vele era ormai impossibile visto il livello di devastazione e abbandono cui erano arrivate, ma non c’è nulla da festeggiare in questo abbattimento. Una vittoria? Una vittoria di cosa? Abbattendole non si risolvono le cause che hanno generato il degrado. Le piazze si sono spostate a Melito, la camorra ha (quasi) smesso di sparare in quell’area perché i cartelli hanno trovato un accordo dopo una faida suicida. In 40 giorni si abbattono le Vele, ma non si costruisce davvero un nuovo percorso: le associazioni fanno un gran lavoro, il volontariato è arrivato in soccorso ma il vero cambiamento che poteva nascere dall’arrivo di imprese che portavano lavoro non è mai arrivato. Oggi, come fu fatto vent’anni fa, i politici corrono a mettere la faccia sull’abbattimento, ma la ricostruzione è ancora lontana.
Scampia è certamente cambiata dagli anni delle faide, l’adagio vittimista che vede i napoletani “marchiati a fuoco” dalla narrazione negativa della propria realtà è totalmente falso. Anzi: il racconto delle proprie contraddizioni ha portato a delle trasformazioni. Se fosse stata “marchiata” e “infangata” per sempre, Napoli non avrebbe tanti turisti e visitatori appassionati. E non ci sarebbe ora tutta quest’attenzione internazionale per l’abbattimento della Vela.
Accendere la luce ha significato iniziare a comprendere gli elementi del disastro e ha anche permesso di mostrare gli errori di decenni e decenni di una politica contigua, della cattiva gestione, delle complicità di una delle borghesie più parassitarie del Paese. Potremo festeggiare quando ci sarà davvero una ricostruzione: per adesso è inutile alzare i calici sulle macerie.
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