Buzzati cronista magico

La raccolta Poco dopo la scomparsa, la moglie Almerina e Domenico Porzio riunirono i testi redatti per il quotidiano. Che oggi ripubblica quell’antologia

 

di Lorenzo Viganò

Cinquant’anni fa moriva il giornalista-narratore I suoi articoli per il «Corriere» rivelano uno stile unico

La moglie Almerina raccontava di averlo visto piangere una volta sola. Era il 1971, il «Corriere della Sera» voleva mandare a riposo i giornalisti di 65 anni d’età e lui, gli aveva ricordato il direttore, stava per compierli. «Tornò cupo dal giornale, si sedette al tavolo, la testa tra le mani. Era angosciato al pensiero di essere buttato fuori dall’organico degli effettivi. Poi, come folgorato, disse: “Non faranno in tempo a cacciarmi, morirò prima”. E si illuminò in volto».

Basterebbe questo episodio a spiegare il legame di Dino Buzzati (che si sarebbe spento alla fine di gennaio dell’anno successivo, proprio a 65 anni) con il «Corriere». Un legame stretto e profondo, lungo una vita intera; un rapporto intimo e simbiotico, quasi di dipendenza, che, dal suo ingresso appena ventunenne in via Solferino, con la certezza di esserne presto «cacciato come un cane», al suo ultimo elzeviro prima della partenza finale con il Reggimento assegnato, interruppe (ma mai spezzò) una volta soltanto, per poco più di un anno, quando, sospesa l’uscita del giornale dopo la Liberazione, migrò con Gaetano Afeltra, Bruno Fallaci e Benso Fini al «Corriere Lombardo». Tornò al «Corriere» nel novembre 1946, per non lasciarlo più.

Del resto, quelle stanze, dove nelle lunghe, ripetitive e immobili notti in redazione era nata l’idea del Deserto dei Tartari, il suo romanzo più famoso incentrato sul tema dell’attesa, Buzzati non le aveva lasciate nemmeno quando, dopo l’8 settembre 1943, con la caduta del fascismo, la maggioranza dei colleghi se n’era andata. Era rimasto al suo posto per senso del dovere — il giornale gli aveva chiesto di restare e lui aveva ubbidito. Una scelta pericolosa — di cui Indro Montanelli in seguito cercò più volte, invano, di spiegargli la gravità — che gli costò sospetti di collaborazionismo mettendo seriamente a rischio la sua permanenza in via Solferino. Fu solo grazie a Gaetano Afeltra, che conosceva bene lui e quello che definiva il suo «candore politico», se poté restare e persino raccontare la Liberazione di Milano in un articolo (non firmato) apparso sulla prima pagina del «Nuovo Corriere della Sera» il 26 aprile 1945, con il titolo Cronaca di ore memorabili.

«La sua vita era il giornale e il “Corriere” era la sua casa», raccontava ancora la moglie Almerina. Dino Buzzati vi era entrato, quasi laureato (in Giurisprudenza), come praticante addetto alla cronaca, insicuro delle proprie capacità («Al “Corriere” non mi terranno e la vita sarà per me un inferno»). Si era fatto le ossa in redazione, poi aveva via via ricoperto diversi ruoli dello scacchiere giornalistico: corrispondente dall’Africa — per raccontare le nuove colonie dell’impero —, corrispondente di guerra — a bordo degli incrociatori nel Mediterraneo –— e, dopo la fine del conflitto e il suo ritorno in via Solferino, inviato — per raccontare fatti, fattacci e imprese, soprattutto italiane —; e poi titolista, elzevirista, responsabile della Pagina dell’Arte. Il deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940 all’età di 34 anni, romanzo nel quale aveva trasposto letterariamente il «Corriere» nella Fortezza Bastiani e sé stesso nell’ufficiale Giovanni Drogo, gli aveva dato la fama, consolidata dai lavori successivi — raccolte di racconti (I sette messaggeri, Sessanta racconti, premio Strega ), romanzi (Un amore), graphic novel (Poema a fumetti). Avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo indipendente dalla routine quotidiana del giornale, un ruolo da osservatore e commentatore, da opinionista. Da «firma». Invece non lasciò mai il tavolo di redazione, la macchina del giornale, la sua ideazione; non rinunciò mai all’inchiostro delle bozze, al rapporto con i collaboratori, al contatto con la tipografia, dove mandava i menabò con i titoli disegnati al contrario che venivano poi contesi e custoditi dai linotipisti.

La sua penna — grazie a una sensibilità non comune e a quella straordinaria capacità, diceva Guido Vergani, di cogliere particolari che gli altri non vedevano e di «mettere l’evento dentro alla vita», con un atteggiamento che Oreste Del Buono definiva «stupore perpetuo» — ha raccontato oltre quarant’anni di avvenimenti, al punto che oggi, attraverso i suoi pezzi, si può leggere la storia (non solo) d’Italia e degli italiani. Quando usciva sul «Corriere» un suo articolo, raccontava Giulia Borgese, la prima donna a entrare in via Solferino, in casa sua il giornale veniva lasciato aperto su quella pagina, invito esplicito e imprescindibile a leggerlo. Ma mai, Buzzati vivente, venne stampato un libro che li raccogliesse, in parte o tematicamente. Ci pensarono Domenico Porzio e la stessa Almerina Buzzati pochi mesi dopo la sua morte, dedicando alla lunga attività giornalistica il primo libro postumo dal titolo — bellissimo — Cronache terrestri: una raccolta di scritti esemplari che oggi il «Corriere della Sera» offre ai suoi lettori in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa dell’autore bellunese. Una sorta di best of che attraversa la sua carriera dal 1932 al 1971, con articoli che toccano i temi più diversi, dalla guerra alle montagne, da Milano al mistero, dai viaggi nei Paesi stranieri ai fenomeni sociali, dall’arte ai personaggi. 99 pezzi (più uno introduttivo sul Meraviglioso mestiere di scrivere) che mostrano la versatilità di Dino Buzzati e il suo modo, unico e inconfondibile, di fare giornalismo, quel giornalismo che, rispetto alla letteratura, era, secondo Eugenio Montale, lo stesso guanto, rovesciato. I grandi servizi giornalistici di un grande scrittore, recitava il sottotitolo sulla copertina della prima edizione: cronache, elzeviri e reportage che il curatore Domenico Porzio ordina in capitoli tematici dai titoli suggestivi (uno per tutti: Dalla babelica città dove abita la paura l’amore la maledizione la solitudine la morte).

«Il giornalismo per me», aveva confessato Buzzati in un’intervista, «non è stato un secondo mestiere ma un aspetto del mio mestiere. L’optimum del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura». Lo dimostrano chiaramente gli articoli di questa antologia, nei quali, che si parli di un delitto o di una battaglia navale, di un artista o di un’impresa sportiva, di una sciagura o di una conquista, il giornalista si scambia continuamente il ruolo con lo scrittore (e viceversa).

Dino non si ferma ai doveri del reporter, e alle informazioni che riporta con scrupolo, precisione e dovizia, aggiunge qualcosa di sé: il proprio segno

È Indro Montanelli a parlare di Cronache terrestri sulle colonne del «Corriere», con un attacco tanto spiazzante quanto significativo del lungo e profondo rapporto che lo legava a Dino Buzzati (con cui aveva diviso una stanza in via Solferino) e alla moglie Almerina, alla quale rimarrà vicino per tutta la vita. «Ho sempre pensato che gli scrittori, una volta morti, è bene che lo siano definitivamente, lasciando ai posteri il compito di decidere fino a che punto si possano resuscitare. Ecco perché li vorrei tutti scapoli: per metterli al riparo dalle vedove che tentano di farli anzitempo rivivere raccattando e pubblicando le loro briciole. Ma Buzzati è uno dei pochissimi che si sottraggono alla regola: il suo pane di briciole non ne perdeva, e qualunque cosa toccasse, anche la più umile e consueta, la sua mano vi lasciava il segno, autenticandola. Faceva parte non del suo modo di fare, ma del suo modo di essere».

Ecco allora che in questi articoli, corrispondenze, racconti, Dino Buzzati non si ferma ai doveri del cronista, e alle informazioni che ogni notizia esige e che egli raccoglie e riporta con scrupolo, precisione e dovizia, aggiunge qualcosa di sé, il proprio segno, appunto. Si emoziona, si indigna, si commuove, si immedesima; ammonisce e riflette. E arriva dritto al cuore del lettore. «La camera ardente di Albenga resterà fra le cose più grandi e spaventose di tutti questi anni e della mia personale vita», è l’incipit dell’articolo sulla sciagura del 1947 nella quale morirono annegati 43 bambini (Il trionfo della morte). «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive all’indomani della strage di via San Gregorio a Milano, nella quale Rina Fort, «la belva», uccise la moglie dell’amante e i suoi tre figli (Un’ombra gira tra noi). E ancora: «Senza osare ancora crederlo, Milano si è risvegliata ieri mattina all’ultima giornata della sua interminabile attesa» sono le prime parole che leggono i milanesi liberati il 26 aprile 1945, nelle quali quel «senza osare ancora crederlo» racchiude ed esprime l’incertezza, la speranza, ma anche la forte determinazione a tornare finalmente a una vita normale (Cronaca di ore memorabili).

Può raccontare dettagliatamente uno scontro navale (La battaglia del golfo di Sirte) e poi entrare nella mente e nella pelle del cane che vive con i marinai su un incrociatore per riferirne pensieri e paure (Ansie del cane di bordo); può confessare i rimorsi di figlio dopo la morte della madre (I due autisti) e condurre i lettori nell’aldilà attraverso una porta segreta scoperta durante gli scavi per la Metropolitana Milanese (I segreti della MM); può, ancora, rivolgersi direttamente alle Pale di San Martino, sue amate montagne — «patria!» —, guardandole con gli occhi di un sessantenne ex scalatore che le osserva dal basso con tristezza e rassegnazione, e dice loro «addio, addio» (O Pale di San Martino) e rivelare il suo amore profondo per la Milano d’estate, «quando è immersa nell’afa e lentamente fuma» (A qualcuno piace calda). A volte gli basta una pennellata per dare profondità al quadro: la «faccia da garagista » di Albert Camus (Camus: un uomo semplice), Bartali che «si divincola sul sellino come fanno le salamandre sorprese dal viandante in mezzo al sentiero» (Coppi sconfigge il grande avversario), la «calligrafia diabolica» di Orio Vergani (Quattro Vergani), i «tric tric» sulle pietre della piccozza del grande alpinista Ettore Zapparoli mentre si allontana, solo, da questo mondo (Zapparoli).

«Il vero mestiere dello scrivere», dirà Dino Buzzati nella sua ultima, lunga intervista rilasciata a Yves Panafieu pochi mesi prima di morire, «coincide proprio con il mestiere del giornalismo, e consiste nel raccontare le cose nel modo più semplice possibile, più evidente possibile, più drammatico o addirittura poetico che sia possibile». Mettendo a disposizione del lettore, come lui faceva, non solo gli occhi del giornalista, ma anche i pensieri, le paure, le debolezze, i segreti che agitano l’uomo.

«Buzzati non vedeva: immaginava. O per meglio dire, immaginava anche quello che vedeva. E non ha mai vissuto, ha solo sognato di vivere», ha scritto ancora Indro Montanelli nella recensione di Cronache terrestri. «A Buzzati il giornalismo era necessario perché era lì che trovava il suo unico aggancio alla vita. […] Nei fatti vissuti dagli altri egli si procurava il materiale per dare corpo ai suoi fantasmi».

 

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