«Il ministro Speranza non ha raccontato cose veritiere, anche questo dovremo valutare. Il procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani, contattato da Domani, commenta così le dichiarazioni rilasciate dal ministro della Salute Roberto Speranza durante la sua audizione davanti ai pm di Bergamo, che indagano sulla gestione della prima ondata Covid in Lombardia, un’inchiesta che sta facendo tremare i palazzi romani di Lungotevere Ripa.

Lo scorso 28 aprile, in aula al Senato, Speranza ha detto: «Al paese e al parlamento ho sempre detto la verità e continuerò a farlo». Il dubbio è che non l’abbia fatto davanti all’autorità giudiziaria.

La fase istruttoria dell’inchiesta sulla strage di Bergamo, coordinata dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota, è ormai agli sgoccioli. In questi 18 mesi di indagini sono state ascoltate centinaia di persone, tra cui ministri, presidenti di regione, il vertice del ministero della Salute, l’ex premier Giuseppe Conte, Speranza due volte, i suoi consulenti tecnici, oltre a decine di dirigenti e operatori sanitari.

Ad oggi sono sei gli indagati per epidemia colposa e falso. La procura di Bergamo, partendo dalle prime denunce di famigliari di vittime Covid in Val Seriana, ha inizialmente aperto un fascicolo sulla mancata zona rossa nella bergamasca e sulla gestione del micidiale focolaio Covid dentro all’ospedale di Alzano Lombardo, arrivando a lambire i vertici dell’Organizzazione mondiale della sanità, sino a far luce sulle mancanze di un intero sistema, che coinvolge direttamente il ministero della Salute per il mancato aggiornamento e la mancata attuazione del Piano Pandemico Nazionale. La chiusura delle indagini, che avverrà tra poche settimane, potrebbe riservare qualche sorpresa e nuovi avvisi di garanzia.

Nel frattempo, emergono notizie che gettano ombre pesanti sulla gestione italiana della pandemia, chiamando in causa non solo la credibilità di chi ci governa, ma anche la competenza e l’attendibilità di quei consulenti tecnici che hanno fornito alla politica evidenze scientifiche fondamentali per prendere decisioni che hanno cambiato per sempre le nostre vite.

Partiamo da Speranza. Il ministro della Salute, davanti ai magistrati di Bergamo (e non solo nelle aule parlamentari) avrebbe negato di essersi mai lamentato con il direttore europeo Oms, Hans Kluge, per il contenuto del report curato dal ricercatore Oms di Venezia Francesco Zambon sulla gestione dell’Italia della prima ondata Covid. Un rapporto ritirato dal web il 14 maggio del 2020, mai più ripubblicato, in cui si definiva la gestione italiana dell’emergenza Covid «caotica, improvvisata e creativa» e si evidenziava che l’Italia non avesse un piano pandemico aggiornato.

In realtà le chat di Whatsapp tra Speranza e il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), Silvio Brusaferro, acquisite dalla Procura di Bergamo e pubblicate da Report, sembrano affermare il contrario.

Alle 12.47 del 14 maggio 2020, Speranza scrive a Brusaferro: «Sto guardando report Oms. Con Kluge sarò durissimo».

E’ lo stesso Kluge a confermare a Zambon via email, il giorno dopo, il disappunto di Speranza («il ministro era molto irritato», scrive Kluge) e a parlare di una «nuova strategia» che coinvolga «ministero, Iss e Oms per rivedere il documento», affinché «il ministero sia felice».

Brusaferro alle 13.35 del 14 maggio scrive a Speranza: «Mi ha chiamato Kluge. Si è scusato. Ho ribadito che al momento non facevo commenti sui contenuti, ma sul metodo. Ha confermato che lo ha ritirato e che si ripropone di discuterlo con noi. Credo faranno una indagine interna sulle responsabilità». Speranza risponde: «Bene».

Dunque, Speranza non è stato neutrale, si è lamentato con Kluge, mentre ai pm ha detto di non averlo mai fatto e ha benedetto la revisione governo-Oms di quel rapporto “indipendente”.

Quello che conta, in questa storia, non sono tanto le sorti del dossier Oms (il caso è già stato trasferito a Venezia per competenza territoriale), ma è la credibilità dei protagonisti in campo. A partire da Speranza, fino a Silvio Brusaferro, capo del braccio tecnico-scientifico del ministero della Salute.

E’ proprio lui a proporre il 5 febbraio 2020 di elaborare una soluzione alternativa al piano pandemico, un “Piano Covid” – basato su modelli di risposta a diversi scenari possibili – che viene stilato da Stefano Merler, matematico della Fondazione Kessler, e che il 20 febbraio viene illustrato al ministro Speranza e al Cts da Alberto Zoli, responsabile Areu Lombardia.

Il caso del piano pandemico puà travolgere Speranza

Brusaferro suggerisce dunque di non utilizzare il piano pandemico, ritenuto inadeguato per fronteggiare il Covid, e di adottarne uno ad hoc, che viene però secretato.

Si presuppone che il capo dell’Iss avesse valutato a fondo il vecchio piano del 2006, prima di scartarlo. E invece si scopre che non lo aveva nemmeno letto e che nessuno lo aveva portato alla sua attenzione.

Questo è quello che avrebbe dichiarato Brusaferro agli inquirenti bergamaschi, ammettendo di avere letto il piano pandemico solo a maggio 2020. «Lo ha dichiarato, ha riletto il verbale e lo ha firmato», conferma a Domani il procuratore capo di Bergamo.

Siamo sicuri che nessuno avesse mai sottoposto il Piano Pandemico al presidente della massima autorità scientifica? Abbiamo chiesto un’intervista a Brusaferro, ma ci è stata negata. Anche su questo aspetto che la Procura di Bergamo sta indagando, con la collaborazione del consulente tecnico Andrea Crisanti, che a fine anno depositerà una perizia proprio sul piano pandemico in vigore nel 2020, sul suo mancato aggiornamento, sull’impatto che ha avuto la sua mancata attuazione e sul processo decisionale che ha portato a non adottare un piano che, seppur vecchio, era comunque incardinato in una legge dello Stato e che soprattutto, secondo la procura, si sarebbe dovuto attivare non appena l’Oms  – all’inizio del 2020 – lancia il primo campanello d’allarme.

«L’Organizzazione mondiale della sanità il 5 gennaio ribadisce che si applicano le misure previste per l’influenza – afferma Crisanti – il nostro piano identificava in grande dettaglio le azioni da prendere nel periodo inter-pandemico, quindi prima della diffusione del virus tra la popolazione italiana. All’epoca si potevano acquistare dispositivi di sicurezza, si potevano acquistare respiratori, che erano previsti dal piano pandemico, si poteva fare formazione al personale».

Crisanti critica anche la decisione di secretare il Piano Covid: “Io mi chiedo come sia possibile applicare un piano secretato. Un piano pandemico è articolato in tutta una serie di misure che devono coinvolgere le regioni”.

Il ministro Speranza – in aula al Senato lo scorso 28 aprile – ha dichiarato: «Lo studio Merler (da cui discende il piano, ndr), a differenza di ciò che si sostiene nelle mozioni, non è stato affatto secretato ed è oggi pubblicato sul nostro portale. Anche grazie a quello studio abbiamo potuto reagire, muniti di alcuni parametri di riferimento».

Eppure, quel documento di 53 pagine non viene mai recepito e nel verbale del 2 marzo 2020 si legge: «Il CTS sottolinea la necessità di mantenere “riservato” il contenuto del piano». Talmente riservato che nemmeno chi entra successivamente nel comitato di esperti ha la possibilità di visionarlo, uno fra tutti l’ex direttore aggiunto Oms, Ranieri Guerra, che ci conferma di non averlo mai potuto leggere, se non quando lo ha pubblicato il programma di Rai3 Report lo scorso autunno.

«Se secreti un piano poi come lo applichi? – si chiede Crisanti – l’Italia ha affrontato questa pandemia senza bussola, con misure creative modificate giorno per giorno».

La perizia tecnica di Crisanti – che ricostruisce anche l’origine del primo focolaio bergamasco, riscrivendone la storia (e di cui ci occuperemo nella prossima puntata di questa inchiesta) – sarà decisiva per capire il destino di questa indagine giudiziaria e l’eventuale iscrizione di nuovi indagati.

Speranza ha sempre dichiarato, anche davanti ai pm, che la scelta di attivare il piano pandemico fosse tecnica e non politica e che spettasse per legge al Direttore Generale della Prevenzione. Eppure, Claudio D’Amario, che rivestiva questo ruolo durante la prima fase Covid, con Domani rivendica il contrario: “Era una decisione politica, in capo al ministero e al governo”.

Speranza e i suoi consulenti hanno sempre affermato che il nostro piano pandemico fosse inadeguato al Covid, perché il Sars-Cov2 è un virus diverso da quello influenzale.

Eppure, nel nuovo Piano Pandemico (PanFlu 2021-2023) – pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29 gennaio di quest’anno – l’influenza resta il modello di riferimento. Cosa che per altro afferma da anni anche l’Oms, identificando – già nel 2014 – le malattie da coronavirus come infezioni respiratorie acute gravi, equiparate a quelle dell’influenza, segnalando quindi come misura di preparazione l’implementazione dei piani pandemici nazionali.

Ecco perché, anche secondo la magistratura, le misure previste dal vecchio piano pandemico del 2006 erano applicabili a qualsiasi malattia respiratoria di natura contagiosa, quindi anche al Covid.

Ma il problema è pure un altro. Il Ccm, il Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie — organo incaricato di coordinare le attività di sorveglianza, di prevenzione e di risposta alle emergenze e diviso in due comitati, presieduti dal ministro della Salute (comitato strategico) e dal direttore generale della Prevenzione (comitato scientifico) – non ha mai sensibilizzato le regioni ad attuare e ad aggiornare i propri piani pandemici, tutti datati. Quello lombardo, per esempio, è fermo al 2006.

Nessun piano operativo, dunque, nessun “Comitato nazionale per la pandemia”, previsto per legge e incaricato di aggiornare il piano pandemico secondo le linee guida internazionali; esercitazioni solo su carta, formazione del personale inesistente, ma soprattutto zero risorse finanziarie.

A Presa Diretta su Rai3, l’ex ministra della Salute Beatrice Lorenzin (in carica dal 2013 al 2018), ha dichiarato: «Sul piano pandemico stanziavamo ogni anno circa 8 milioni di euro nel budget del bilancio. Impiegavamo le risorse per il personale e per finanziare i progetti. Se lei mi chiede: qualcuno le ha detto che servivano più risorse? No».

Ranieri Guerra, ex direttore aggiunto Oms, e direttore generale della Prevenzione durante il mandato della Lorenzin, a Presa Diretta ha dichiarato che «sull’attività di controllo delle epidemie erano allocati due milioni e mezzo e io con questi soldi dovevo equipaggiare, formare, esercitare i medici che dipendevano dal mio dipartimento».

Per intenderci: nel 2022 è previsto lo stanziamento di 200 milioni di euro per l’implementazione delle misure di preparazione e di risposta a una eventuale pandemia influenzale, una cifra che salirà a 350 milioni nel 2023.

Se questi sono i termini di paragone – 8 milioni contro  350 milioni – appare chiaro come il rischio di una pandemia non sia mai stato ritenuto cogente da nessun governo italiano negli ultimi 10 anni.

Eppure, il Covid-19, come afferma il rapporto di un panel indipendente Oms pubblicato lo scorso maggio, è stata la pandemia più annunciata della storia. «Erano anni che la comunità scientifica allertava sull’arrivo di un patogeno, molto contagioso, che attacca le vie respiratorie», afferma Nicoletta Dentico, scrittrice e giornalista esperta di salute globale.

«Ci sono state 11 Commissioni internazionali sulla preparazione pandemica – aggiunge Joanne Liu, ex presidente internazionale di Medici senza frontiere e membro del Comitato che ha stilato lo studio –  di tutte le linee guida suggerite, meno del 10 per cento sono state implementate. Non basta recepire le indicazioni per essere pronti, bisogna programmare, investire e agire. Se lo avessimo fatto avremmo probabilmente mitigato molto l’impatto di questa pandemia».

Il biasimo, dunque, è globale, ma l’Italia ha pagato per questa impreparazione un conto salatissimo.

LA SCIATTERIA

C’è una parola chiave di questa pandemia, è preparedness, potremmo tradurre come “essere pronti”, il che si concretizza in una azione politica e strategica dai risvolti socio-sanitari ed economici, sintetizzabile così: investire a perdere in attesa della catastrofe”. Ce la spiega con questa frase Donato Greco, epidemiologo di lungo corso e “padre” del vecchio Piano pandemico nazionale approvato nel 2006, quando era direttore generale della Prevenzione. “In Italia abbiamo perso la cultura della preparedness – dice Greco – la prevenzione è da anni la cenerentola del sistema. Il piano pandemico è un animale vivente, ha senso se viene rinnovato ogni anno, altrimenti è solo un documento. C’è stata molta sciatteria”.

Ecco il punto: la consapevole sciatteria di chi doveva aggiornare quel piano, fermo al 2006, ha portato un’intera classe dirigente ad affermare che fosse strutturalmente inadeguato al Covid, senza ammettere che fosse invece un pezzo di carta dimenticato in qualche cassetto ministeriale, su cui nessuno aveva mai investito davvero. Nonostante questo, quel piano era l’unico “manuale delle istruzioni” che il nostro paese avesse e che il ministro Speranza ha invece sempre ribadito non esistesse. In realtà esisteva e conteneva preziose linee guida, a partire da quelle sulla sorveglianza epidemiologica (completamente bucata). Peccato che in pochi lo avessero letto e che nessuno ci avesse messo mano per oltre 14 anni.

La Procura di Bergamo sta cercando di ricostruire l’intera catena di comando che ha portato a questa trascuratezza clamorosa, che ha sortito conseguenze nefaste per tutti i cittadini italiani.

Al vertice del ministero

Negli ultimi anni si sono avvicendati alla direzione generale del Ministero della Salute diversi responsabili, tra cui, Giuseppe Ruocco, Ranieri Guerra e Claudio D’Amario, incaricati di aggiornare il Piano Pandemico. Guerra è oggi l’unico indagato dalla Procura di Bergamo per falsa testimonianza proprio sul mancato aggiornamento di quel piano.

Ci sono anche altre figure sul cui operato la magistratura sta cercando di fare luce: sono i responsabili degli uffici 3 e 5 del ministero della Salute, incaricati di tenere viva la comunicazione con gli organismi internazionali proprio sullo stato di avanzamento del nostro piano pandemico. Parliamo di Francesco Maraglino, Maria Grazia Pompa, Loredana Vellucci e Mauro Dionisio, che potrebbero rispondere di falso ideologico in relazione ai questionari di autovalutazione inviati periodicamente all’Oms e all’Unione europea. Documenti talvolta nemmeno inviati e nei quali l’Italia, quando invece li ha compilati, ha sempre dichiarato di essere in regola con le linee guida internazionali, compreso l’aggiornamento del piano pandemico.

“Nelle autovalutazioni ci davamo 100 e qui sta il paradosso – dice il Generale Pier Paolo Lunelli, esperto di pianificazione pandemica – noi abbiamo dichiarato il falso all’Unione Europea e all’Oms. Abbiamo detto agli altri Paesi: ‘noi siamo pronti’ e non lo eravamo!”

C’è un filo rosso che lega l’ecatombe della Val Seriana alla mancata attuazione del piano pandemico, ragione per cui questo filone di indagine potrebbe restare in capo alla Procura di Bergamo. La costola relativa al mancato aggiornamento potrebbe invece passare a Roma per competenza territoriale.

L’inchiesta, dunque, viaggia su più livelli, su più filoni d’indagine e su più procure, a dimostrazione del fatto che quanto accaduto a Bergamo all’inizio del 2020 non è soltanto una vicenda locale, ma riguarda un’intera stagione politica e amministrativa i cui protagonisti sono ora chiamati a rispondere di un’inerzia pluriennale, di sciatteria e di incompetenza, di omissioni e di falso, in buona sostanza di quello che il codice penale non prevede come reato, ma che potremmo definire un disastro sanitario.