Compie ottant’anni la nostra cantante nazionale che ha deciso di sparire lasciandoci ” solo” la sua voce
di Luigi Manconi e Silvio Di Francia
Nel 1994, un sofisticato produttore musicale, realizzò un album di canzoni di Lucio Battisti e Mogol interpretate da Mina, dandogli il seguente titolo: Mazzini canta Battisti. Affiancando il cognome di Mina a quello di Lucio si otteneva un connubio dal suggestivo effetto risorgimentale, che accompagnava al nome del fondatore della Giovine Italia quello del patriota irredentista impiccato dal potere austroungarico. L’intento, ipotizziamo, era quello di attribuire a due tra i più grandi interpreti della musica leggera italiana un ruolo fondativo, una funzione costituente, ovvero l’atto creativo di una nuova identità nazional-popolare.
Si esagera un po’, ma è vero che, la produzione artistica, e in particolare la musica leggera, vive costantemente di eccessi e di dilatazioni, di enfasi e parossismo. D’altra parte, rispetto allo sviluppo della musica in Italia, chi può negare il ruolo davvero determinante che hanno avuto Mina e Battisti? In quell’album del ’94 Mina offre una versione di Nessun dolore che costituisce una sorta di manifesto artistico – trentacinque anni dopo – del genere di interpretazione definito “degli urlatori”.
La canzone di Battisti e Mogol viene battuta e ribattuta, andando fino all’osso del ritmo per far esplodere, nel refrain, la potenza dell’urlo. Attenzione: un urlo vero e proprio.
A decenni di distanza da quella stagione, Mina ne propone un revival, bensì la forma definitiva, quella autentica, da consegnare agli archivi: una prova magistrale per affermarne la piena titolarità e celebrare, in qualche modo, la continuità del suo percorso di cantante. E questo impone di tornare a quel 1960 quando nelle sale cinematografiche veniva proiettato, davanti a platee di adolescenti, il film Urlatori alla sbarra di Lucio Fulci, valentissimo artigiano e poliedrico regista di tanti generi, tra i quali appunto quello dei ” musicarelli”. Era l’anno, ricordiamolo, delle Olimpiadi di Roma, di Livio Berruti che vince la medaglia d’oro dei duecento metri e del rivelarsi di un miracolo economico che sembrava annunciare all’Italia e agli italiani una nuova era. In quel film troviamo Mina accanto ad Adriano Celentano e Joe Sentieri (quello del “saltino”), insieme a Gianni Meccia e a Umberto Bindi, uno dei cantautori più introversi e musicalmente dotati. Ancora: Chet Baker, grandissimo trombettista jazz, e attori comici che avrebbero ottenuto vastissima popolarità, come Lino Banfi e Mario Carotenuto; ma vi compaiono anche I Brutos, prima espressione di un genere “demenziale” che anticipa di vent’anni gli Skiantos e di quaranta Elio e le storie tese.
Celentano canta Impazzivo per te e Mina Nessuno, che insieme a Una zebra a pois, Tintarella di luna e Le mille bolle blu, tutte del triennio ’59-61, rappresentano una sorta di corpus musicale, ritmico e stilistico, davvero dirompente e sovversivo dei codici musicali dominanti. Sono quattro brani formidabili, dove ciò che più conta è il ritmo, la scansione dei tempi, la partitura contratta e accelerata. È come se Mina ignorasse la più convenzionale melodia italiana per riprendere ed esaltare quelle tracce “americane” che erano state introdotte nella nostra musica nazionale, a partire dal dopoguerra, da cantanti e musicisti che coltivavano l’amore per lo swing. Una passione che unisce Ernesto Bonino e Natalino Otto, a Marino Marini, Lelio Luttazzi, Bruno Martino, Nicola Arigliano; e che tiene insieme miracolosamente l’anomalia alcolista, tabagista e notturna di Fred Buscaglione; e quella scanzonata e caricaturale, effervescente e “diurna” di Renato Carosone.
Mina rincorre lo swing e lo esaspera fino alla rottura e, grazie a grandissimi autori, distribuisce un po’ di quel ritmo in tutto ciò che canta. E ciò in virtù di una voce che le consente ogni temeraria tentazione e qualunque spericolata avventura.
I testi di quei brani risultavano sorprendenti, non certo per qualche innocua trasgressione ( quelle vere sarebbero venute più tardi con Cristiano Malgioglio), bensì per il ricorso libero e irruento al nonsense, al gioco verbale, all’invenzione surreale. Dunque, non una nuova letteratura canora che accompagnasse la nuova musica, né tantomeno una ” letteratura giovanile”, bensì un uso scanzonato e irriverente della parola che scombinava significato e sintassi, per farsi suono e strumento della voce.
E si ritorna al tema della voce. L’urlatrice che spazia dal pop alla bossa nova, dal jazz alla canzone napoletana, dal melodramma all’operetta, dimostra una versatilità che induce il Maestro Bruno Canfora a scrivere il divertissment Brava ( 1965), per un puro esercizio di vertiginosa capacità vocale.
« Non è solo la straordinaria ricchezza della voce, capace di espandersi su tre ottave e di raggiungere grandi livelli di virtuosismo. È la tensione interpretativa scriveva Rina Gagliardi nel marzo del 2010, paragonandola alla Callas – quella che Verdi chiamava la ” parola scenica”, a rendere unico il modo di eseguire, in entrambe, un brano musicale dotato di un testo, si tratti di un’aria o di un recitativo, o di una più semplice canzone». Una capacità che interessò, a proposito del paragone con la Callas, anche un autorevole critico musicale come Rodolfo Celletti: « L’ho ascoltata e ascoltata ancora e poi ho capito che quando era giovane non aveva un’unica voce, ma diverse, a seconda di ciò che eseguiva. Per anni mi sono chiesto con chi avesse studiato canto. Alla fine, mi sono risposto che era una domanda stupida. Certe finezze, certi accenti, certe modulazioni non si acquisiscono. Nascono per germinazione spontanea». Consapevole di cosa rappresentasse la sua voce Mina, per quarantadue anni, ha perseguito l’obiettivo di ridurre Mina alla sua essenza. Appunto, alla sua voce. È stata un’operazione crudele fino alla spietatezza, un lavoro di scarnificazione di tutto ciò che risultava eccedente il puro suono. Le copertine dei dischi, dopo un iniziale ricorrere a silhouette, ombre, profili della sua immagine, hanno rinunciato anche a questi, per evocare solo il nome e – con l’eccezione di cui abbiamo scritto all’inizio – il nome nella sua forma prima, senza il cognome. L’operazione è perfettamente riuscita, nessuno più si interroga sulla sua permanenza a Lugano, sui suoi amori antichi che l’assenza rende eterni. Come nella grande letteratura e nella grande musica Mina ha lavorato sottraendo, togliendo, levando, cercando l’essenziale.
Avendo investito tutto nella voce, oggi può chiedere alla voce di fare tutto, in quella che è stata definita una ” sconfinata libertà”. Il repertorio diviene così altrettanto infinito: se a Mina piace una canzone, un autore, una scena musicale non pone e né si pone limiti. Può duettare con esponenti dell’underground italiano come Manuel Agnelli degli Afterhours e Boosta dei Subsonica e collaborare con un raffinato pianista jazz come Danilo Rea per poi tornare a Cristiano Malgioglio. Ma può anche concedere a due autori, Matteo Mancini e Gianni Bindi, che nella vita si dividono tra un negozio di ferramenta e una Asl, il privilegio di scrivere una canzone interpretata da lei ( Volpi nei pollai del 2009).
Diventata una delle più grandi interpreti al mondo, Mina può cantare i Beatles ( Mina canta i Beatles del 1993), e le canzoni di Natale ( Christmas Song Book del 2013). Quello che lascia stupefatti è la capacità di esplorare qualsiasi genere e timbro vocale. Una sicurezza di sé che evoca un altro confronto: quando, nell’autunno estremo della sua carriera, Johnny Cash, icona della tradizione country rock americana, volle interpretare brani di autori della scena alternativa: dai Nine Inch Nails a Nick Cave, dai Depeche Mode ai Soundgarden.
Ripensando all’incredibile carriera di Mina e alla sua sterminata discografia si può notare che una sola forma della vocalità si è negata: il canto gregoriano. Ma Mina è giovane, ha appena ottant’anni e noi sappiamo attendere.