Arte italiana del Novecento, le congiunture “impossibili”

Aveva creato qualche scompiglio, nell’autunno del 2015, la relazione di Alessandro Del Puppo su Burri al convegno milanese organizzato da Francesco Tedeschi, il più sollecitante e innovativo fra quelli tenutisi quell’anno per il centenario della nascita del pittore. Lo si può rileggere, col nuovo titolo Burri/Guttuso, 1960, fra i dieci saggi organizzati come capitoli di un’unica frammentata narrazione in Egemonia e consenso Ideologie visive nell’arte italiana del Novecento (Quodlibet, pp. 200, euro 11,70).
Ad alcuni era parso inconcepibile voler stabilire un dialogo di mutuo scambio fra pittori che nella vulgata sembravano aver avuto una collocazione inamovibile e antagonista all’interno del casellario storiografico. Eppure il punto di forza era proprio lì: mettere in discussione una visione consolidata e argomentare come fosse possibile che il campione della realismo fosse l’interprete più intelligente – con occhio da pittore – del lavoro del più importante artista astratto italiano, avendo guardato al suo lavoro con molta più attenzione di quanto non sarebbe stato disposto a riconoscere pubblicamente.
Eppure in alcuni dettagli a collage sullo sfondo della Discussione – presente alla XXX Biennale di Venezia, dove Burri ha peraltro un’importante sala personale – rispondono a distanza a certi assemblaggi di materia, mostrando la crisi irrisolta che il realismo stricto sensu stava attraversando come via maestra del rapporto fra arti visive e impegno politico. Era lo stesso problema che aveva messo in crisi Leoncillo – protagonista di un altro importante saggio di questa raccolta di Del Puppo – alla Biennale del 1954, a stretto confronto con Lucio Fontana, vero e proprio «fattore F» dell’arte italiana con una funzione cruciale di mutamento. In entrambi i casi, gli artisti si trovano a fare i conti con anni difficili, in cui si avvertono le ricadute che i condizionamenti dichiarati o impliciti dell’adesione a un modello culturale potevano comportare nell’elaborazione di uno stile. Non è una questione puramente filologica, né un’attenzione particolare alle logiche che sovrintendono alla creazione artistica (o non solo), né soltanto una questione di rapporto dialettico fra artisti e sistema dell’arte in termini di storia sociale: la partita si gioca sulla reciproca relazione fra questi due approcci, che concorrono a fare del documento visivo un tassello insostituibile per una più ampia storia della cultura.
Su questo scenario si muovono gli artisti e si consumano le più profonde crisi di identità stilistica, fra spinte esterne che puntano a una egemonia culturale e ricerca di un largo consenso. Questo libro, infatti, è il seguito ideale dei nove saggi riordinati e in parte riscritti da Del Puppo in un altro libro del 2012, sempre per Quodlibet, dedicato a Modernità e nazione (di nuovo un’icastica coppia di sostantivi che ricorda i classici della letteratura) e circoscritto ai primi decenni del Novecento. Nell’introduzione a quel volume, infatti, egli scriveva di voler «affrontare un discorso sulla formazione delle idee a partire dalle impressioni sensibili offerte dalla pratica artistica». Questo significava interrogare le opere d’arte non solo sotto il profilo della forma e delle sue fonti, ma anche in chiave iconologica, così da legare i fatti di stile a precise scelte di campo ideologiche. Era il caso, per esempio, dei Funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà, opera analizzata interrogandosi su quale senso avesse raccontare quella vicenda in un dipinto di grande formato, scegliendo quel tipo di pittura.
Lo stesso vale per i saggi di Egemonia e consenso, che affrontano il periodo fra la metà degli anni trenta e il Sessantotto (quest’ultimo è visto attraverso la Didattica e controdidattica all’Accademia di Belle Arti di Venezia), con uno sguardo anticanonico, suggerendo connessioni traversali su terreni poco battuti che, all’insegna dell’only connect, contribuiscono alla comprensione di un trentennio di cultura italiana.
Sono testi scritti lungo un decennio, relazioni a convegni e saggi per cataloghi di mostre, rimontati in una sequenza cronologica che fa affiorare un filo conduttore unitario, o meglio una costante tensione problematica che tiene uniti il dibattito culturale e il lavoro degli artisti, ponendo anzi attenzione al profilo intellettuale (e talvolta psicologico, il caso Spazzapan) di questi ultimi come motore di una cosciente interrogazione sulle scelte di stile calata in un contesto socio-politico con le sue tensioni di fondo e l’avvicendamento generazionale fra guerra e dopoguerra.
È per questo motivo che leggendo i saggi di Alessandro Del Puppo si prova sempre uno straniante effetto-sorpresa ottenuto con uno stile piano e di sottile ironia nel suo understatement, che con lo spirito accostante della conversazione centra repentinamente un bersaglio di precisione. È lo stesso effetto, maieutico e problematizzante, delle sue lezioni universitarie udinesi. Ed è così che questi dieci saggi scombinano le regole del gioco, fanno saltare il banco e sollecitano il salutare esercizio del dubbio.
A prima vista sembrerebbe incredibile poter individuare un qualche rapporto fra l’attività pubblicistica di Ignazio Silone a Zurigo nel 1944 e la militanza marxista di Clement Greenberg: eppure in quell’anno Silone aveva firmato come Modernità e pompierismo nell’arte un plagio da Avant-garde and Kitsch del 1939, manipolandolo astutamente ed espungendo dalla traduzione quei passi del critico statunitense troppo audaci per la sua idiosincrasia antimoderna.
Rispetto a Modernità e nazione, in Egemonia e consenso gli attori in campo sono molteplici: entrano in gioco gli scrittori e i critici militanti, i filosofi la cui riflessione si consuma a stretto contatto con gli artisti (è il caso di Antonio Banfi e della «moralità della pittura» negli anni di Corrente); inoltre gioca un ruolo centrale il dialogo con i maestri del passato. Non è un caso che scandiscano la narrazione di questo libro, come punti di snodo, due mostre di Old Masters: il Tintoretto «in camicia nera» a Venezia nel 1936, dove tramite un accorto uso di dettagli fotografici Nino Barbantini riesce a formula una lettura dell’artista in chiave di modernità «impressionista» di contro alla retorica epica e nazionalista del momento; la retrospettiva di Courbet alla Biennale veneziana del 1954, che ne sancisce per la critica il tesseramento ideale al Partito Comunista, fra il Caravaggio longhiano della mostra del 1951 e Guttuso. Lo sguardo sull’arte del passato, insomma, produceva senso per le ricerche del presente, con forzature funzionali alle esigenze ideologiche del momento. Così, le Eredità bizantine potevano offrire spazio di manovra ai più accorti, come Osvaldo Licini e Fontana, per uno scatto in avanti rispetto alla trita (e non sempre veritiera) diatriba tra arte figurativa e astratta.
Ecco dunque, come si legge nell’introduzione, che da ciascuno di questi casi di studio «trapela lo schermo di sistemi di pensiero, di opportunismi, di sbrigative forme di convenienza, d’incomprensioni e di strumentalizzazioni». Ma soprattutto, mostrando il lato fluido degli eventi, trascurato dalla pigrizia degli studi, rimane un avvertimento: «Talvolta, le parole della storia dell’arte si confondono con la platea sonante degli esegeti, incappano in forzature, accettano l’inerzia (o la forza, che è poi lo stesso) della Storia».

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