Pur dichiarandosi un non- fan. Ivano Fossati racconta cosa ha rappresentato per la sua generazione il grande cantautore e premio Nobel che compie 80 anni
di Ivano Fossati
Provare a parlare di Bob Dylan è come girare intorno ai lati di una piramide egizia cercando l’ingresso. Se ti concentri sul poeta e l’intellettuale, compreso il lato esistenziale che è tanta parte della sua storia, tralasci il musicista, e sbagli. Se punti lo sguardo sul suo lavoro artistico e musicale ti perdi per strada metà di lui. E se lo tratti solo da grande rockstar è meglio che lasci perdere.
Non so quanti siano gli ammiratori devoti a Dylan nel mondo, forse non un numero esorbitante se paragonato a quello dei fan di Justin Bieber e Beyoncé, in compenso la bibliografia è sterminata. Si sono messi in tanti a cercare di capirci qualcosa, e con quale passione. Lui, per ricambiare, gli ha sempre messo in mano gli occhiali sbagliati. L’hanno visto troppo lontano o troppo vicino, troppo grande o troppo piccolo, sfocato o capovolto. All’inizio hanno scritto che sarebbe durato quanto una pioggia passeggera, e che non aveva il fisico del ruolo perché piuttosto basso. Gli sfuggiva che uno con una faccia così, nella vita avrebbe potuto fare il cinema, la politica, le rivoluzioni e avrebbe più o meno sempre vinto; per convincersi dare un’occhiata alla copertina di Love and Theft. Quindi non è un caso che gli scritti su di lui siano pieni di pare e si dice, più altre forme dubitative in tutte le lingue. Tu allora ti metti il cuore in pace, ragioni da aspirante fan e pensi che il suo vero essere è contenuto nelle canzoni. Ma non è nemmeno lì, almeno non del tutto. Anche quelle sono piene di stop and go, ripensamenti, illuminazioni, esaltazioni, delizie, enigmi e delusioni. La sua musica non nasce con lui, viene da lontano, è storia lunga. E il pensiero anche di più. È antico quanto il blues e senza tempo come la scarica del fulmine. Amarlo e capirlo può essere sfiancante. Scelgo di starne fuori. Io non sono un devoto, a me Bob Dylan piace e basta. Non ho mai cambiato stazione quando la sua voce usciva dalla radio ma non ho mai nemmeno comprato un bootleg. Da ragazzo non avevo il suo poster attaccato al muro, lì ci tenevo i Rokes. Adesso spiego perché. E come ho incontrato Blowin’in the wind.
Niente vintage, solo cronaca: nel 1964 avevo tredici anni e facevo la terza media in un collegio di preti per bravi figlioli di famiglie instabili. La musica dentro quelle mura non esisteva, a parte i canti liturgici che dovevamo provare in chiesa alle sette di sera. Unica eccezione quell’anno la finale del festival di Sanremo. Voleva vederla il prete. Quando l’anno seguente fui libero da quella specie di detenzione il mondo della musica era cambiato e io non ne avevo saputo niente. Ero in grado di suonare al pianoforte solo tre minuetti facili e una canzone in napoletano con gli accordi deprimenti. In giro per le strade di Genova le canzoni dei Beatles colpivano in faccia come la grandine. Chiesi di poter avere una chitarra da quattro soldi e imparai i fatidici tre accordi Mi — La-Re, che servivano a strimpellare Gloria dei Them e La Poupée Qui Fait Non di Michel Polnareff: i miei coetanei sanno di cosa parlo. A questo punto mi sbattè in faccia anche Blowin’in the wind, che era uscita mentre ero in clausura. Insieme agli amici si cercava di riprodurla bofonchiando una scialba versione in italiano, ma i nostri accordi erano sempre gli stessi, tre. Era come cercare di chiudere a forza un cassetto troppo pieno, coi calzini che scappano di fuori. La cantavamo come tante altre canzoni, costringendola dentro gli accordi sbagliati. Non avevamo idea che fosse già inviolabile. Per noi quel metodo era prassi, massacravamo allegramente tutto. A quattordici anni fra l’epicentro del sisma e noi c’erano troppo oceano, troppa Italia e ancora troppo da sapere.
Tornando a lui, lo ammiro, come più o meno tutti. Pur essendo immerso fino agli occhi nello show business americano — che non è mai roba per signorine — a inseguire il gusto del pubblico non ci ha proprio pensato. Forse con un po’ di fastidio si è lasciato inseguire. Oppure se n’è infischiato del tutto e si è pure divertito, vedi il capitolo Traveling Wilburys. Dove stia l’esatta verità tanto per cambiare non è dato sapere. Di certo non a me che sono un superficiale non-devoto.
Penso a Dylan e mi viene in mente Miles Davis. Qualche dato caratteriale comune fra i due mi sembra che ci sia stato. Non facili, né uno né l’altro. Amo Miles Davis: uno che nel 1967 incide Nefertiti vuol dire che è già stato su Marte e poi in silenzio è tornato indietro. Ma questo non mi fa desiderare di conoscere le pieghe della sua vita e tutta l’aneddotica che tanto piace agli appassionati. Allo stesso modo non ho molti dischi di Bob Dylan, e nessun libro, anche se qualcosa di sinceramente pedantesco e apertamente agiografico mi è capitato fra le mani. Ma una canzone, Don’t Think Twice, It’s All Right, mi commuove ancora, e anch’io penso che The Freewheelin’ sia un album monolitico, fra i più ispirati e dirompenti della storia della discografia. Mi piacciono anche Desire e Slow Train Coming, un po’ meno Infidels, ma non faccio il critico, quindi non sto a dire perché. In fondo ahimè Dylan non lo conosco così bene, però mi va l’idea che non sia mai dove lo cerchi. Nonostante i palcoscenici, i clamori e le centinaia di ritratti perfetti, a lui nascondersi è riuscito meglio che a Salinger, senza vivere confinato in mezzo ai boschi.
Mi piace fino a Murder Most Foul, come dire fino a ora. Poco importa se l’ha registrata qualche anno prima di pubblicarla, come sibilano i bene informati. A un certo punto, annoiato dal suo stesso silenzio, il poeta Nobel multimilionario smette di giocare col cane, ti batte sulla spalla e fa… « io sono questo, nel caso ti fossi dimenticato ». Ma a noi basta che lui esca di casa una volta ogni tanto per ricordarci di tutto.