Walter Benjamin aveva creduto di individuare un percorso storico lineare: pittura, incisione, fotografia, cinema. La contemporaneità si è preoccupata di mescolare modelli, pratiche e generi. L’autore non è più solo. Le nuove tecnologie hanno cambiato tutto
di Vincenzo Trione
Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935) Walter Benjamin si fa interprete di una lettura lineare e progressiva della storia delle arti visive: prima la pittura, poi l’incisione, infine la fotografia e il cinema. Si tratta di un evidente, ma fecondo, errore di prospettiva. Appare piuttosto semplificatorio pensare che i media, nella modernità, si siano solo avvicendati. Il panorama contemporaneo sembra, piuttosto, suggerire una simultaneità di modelli anche opposti, che si sono trovati a convergere. Pratiche lontane si fondono. Si combinano. Si giustappongono. Convivono le une accanto alle altre. E si reinventano.
Alcune specifiche esperienze linguistiche tendono a uscire fuori dei loro recinti. Sottoposte a ininterrotte riscritture, si ibridano. Acquistano inedite possibilità espressive, inesplorate dimensioni, altre funzioni. Inaugurano scenari, rituali. Favoriscono diverse avventure dell’occhio, del corpo e dello spirito. In questo processo, le singole arti perdono anche qualcosa di sé stesse, ma guadagnano potenzialità inattese.
Questo scenario, segnato da confluenze e da slittamenti, è stato reso ancora più complesso dall’avvento delle tecnologie più avanzate. Dinanzi a tale trauma, alcuni artisti continuano a comportarsi come hanno fatto per secoli: si rifugiano dentro sacche di resistenza, quasi indifferenti alle voci del presente. Altri si adattano al nuovo habitat, consapevoli del fatto che sta accadendo qualcosa di epocale con cui occorre fare i conti: il campo da gioco si è fatto più complicato; viviamo in un mondo in cui c’è più traffico di una volta. Provano, perciò, a salvaguardare l’identità dei media tradizionali, in grado di assicurare la trasmissione di saperi, di conoscenze, di memorie. E, insieme, si aprono al digitale, all’intelligenza artificiale, alla robotica, alla realtà virtuale e a quella aumentata, agli algoritmi e al blockchain, intrecciando i sogni di ieri e quelli di oggi, l’audacia di ieri e quella di oggi, la patria di ieri e quella di oggi.
Per accostarci alla ricerca di questi artisti del transito (spesso nativi digitali), potremmo richiamarci a una figura cara a Benjamin: la costellazione, luogo in cui «quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora». Da un lato, quel-che-è-ora. Dall’altro lato, quel-che-è-stato.
Innanzitutto, questi artisti prendono atto che, come ha recentemente ricordato Alessandro Baricco, «un muro è saltato, una diga, un qualche steccato». Si tratta di una torsione violenta: siamo chiamati a giocare una partita che lascia già intravedere «una cultura, perfino un’etica, sicuramente uno stile di vita» e costringe a un radicale cambio del nostro modo di stare nella realtà.
Occorre, perciò, aderire a quella che è stata definita «infosfera», spazio liquido, senza coordinate, veloce, relazionale, condiviso e comune, dove l’umanità trascorre sempre più tempo e dove si svolgono tante attività (dall’educazione al lavoro, dalla socializzazione all’intrattenimento, dal commercio alla finanza, dal giornalismo alla politica). Muovendo da un’idea d’impronta positivista: la tecnica è non solo un mezzo a disposizione dell’uomo, ma un mondo, capace di modificare radicalmente i nostri gesti, il nostro modo di pensare e di sentire.
Da queste intenzioni nascono sculture e quadri eseguiti con sofisticati strumenti high-tech, facili da postare sui social, destinati a favorire eterogenee modalità di fruizione.
Alcuni esempi. Nel continente della Virtual Reality (Realtà virtuale), ecco Cécile B. Evans, che si concentra sull’impatto delle tecnologie sulla soggettività umana; ecco Ed Atkins, che dà forma a una dimensione sospesa tra realtà e apocalisse; ecco Jon Rafman, che indaga le culture e le sottoculture digitali; ed ecco Alejandro González Iñárritu, che in Carne y Arena denuncia l’aggressione ai migranti sul confine tra Messico e Usa.
Nel continente dell’Artificial Intelligence (Intelligenza artificiale), incontriamo Cao Fei, sapiente nell’esplorare i cambiamenti del mondo contemporaneo; Ryoji Ikeda, architetto di mappe algoritmiche di straordinaria efficacia acustica e visiva, che registrano le mutazioni del nostro pianeta; Simon Denny, che esplora la mercificazione delle informazioni nel contesto del commercio globale; e Karan4d, inventore di un algoritmo che consente all’intelligenza artificiale di replicare alcuni capolavori della storia dell’arte, fino a generare immagini inedite.
Nel continente dell’Augmented Reality (Realtà aumentata) ci imbattiamo, tra gli altri, in Darren Bader, regista di creazioni multi-autoriali, che investigano sull’influenza di internet e sul capitalismo consumistico globale; e in Kaws, i cui lavori, ispirati ai cartoon, sono caratterizzati da colori e forme esuberanti.
In un altro continente, ecco gli artisti «robotici». Come Sun Yuan e Peng Yu, le cui installazioni suscitano meraviglia ed evocano un senso di minaccia; o come Jordan Wolfson, abile nel comporre drammaturgie enigmatiche percorse da personaggi animati; o anche come Louisa Clement, che si misura con le forme di comunicazione, di standardizzazione e di riconoscimento nell’era digitale, per mettere in discussione le dinamiche dell’interazione collettiva in un momento nel quale le categorie di individuo e di realtà sono entrate in crisi.
In un altro continente ancora, scopriamo i «bioartisti», i quali, in dialogo con gli ingegneri genetici, si interrogano sull’idea stessa di vita e sul concetto di identità. Intenti a combinare estetica ed etica, trattano i processi biologici come materie prime della propria ricerca, mettendo a fuoco le criticità del progresso biotecnologico. Talvolta, producono esseri sintetici (Eduardo Kac), ibridi vegetali (George Gessert), oggetti «semi-viventi» (Tissue Culture & Art Project) e batteri originali (CAE, ovvero Critical Art Ensemble). Altre volte sperimentano manipolazioni di elementi naturali (ancora George Gessert) e trasformazioni delle specie animali (Marta de Menezes). Altre volte ancora ingegnerizzano il codice genetico di microbi (Joe Davis). Altre volte, infine, si interrogano sul potere dell’industria biotecnologica, insinuando in noi ansie sui rischi delle manipolazioni transgeniche (Marion Laval-Jeantet e Benoît Mangin, Paul Vanouse e Heather Dewey-Hagborg).
Nella nostra cartografia, un posto a sé spetta ai cryptoartisti, i cui dipinti high-tech possono essere commercializzati, ma non duplicati, perché criptati grazie alla tecnologia Blockchain che li certifica, ne legittima e ne garantisce l’autenticità e l’unicità; e grazie all’applicazione Nft, che consente la creazione di file collezionabili, dei quali si possono individuare proprietà, valore, tracciabilità. Non documentazioni di quadri, sculture o installazioni, ma opere d’arte «vere», in alta definizione, difficili da trasmettere, concepite per stare solo dentro la Rete (e non in qualche museo o galleria), in grado di sfidare le classiche mediazioni su cui si fonda l’art system. Leggeri, elementari, ruvidi, feticistici, immateriali: sono questi, ha osservato ancora Baricco, «i tratti somatici di un Nft».
L’arte tecnologica e digitale 2.0, dunque. Esercizi densi di rimandi alle visioni surrealiste e alle atmosfere dei videogame. Interventi che si pongono su una soglia: rinviano alle distopiche emergenze della tarda modernità e, al tempo stesso, appaiono in linea con la sempre più diffusa tendenza alla «derealizzazione» — il vero è sostituito dal virtuale, il reale è spazzato via dal simulato. Siamo dinanzi a lavori divertenti, curiosi e brillanti che, non di rado, appaiono ancora irrisolti, deboli, ingenui dal punto di vista stilistico. Soprattutto, freddi e meccanici. Gli artisti, spesso, sembrano piuttosto mettersi al servizio dei dispositivi utilizzati.
Si pensi a tanti Nft. Affreschi dematerializzati e policromi, che hanno molte assonanze con i dipinti allucinati di Dalí, ma anche con le illustrazioni 2D e 3D e con i render degli architetti. Incroci ingenui tra il fantasy e il videogioco, con soluzioni da grafica pubblicitaria, ora avvolti dentro una nube di speculazione finanziaria. «Una parte di questa utopia digitale andrà a finire male, nel futuro ci saranno sempre meno buoni lavori e sempre più lavoretti, giusto una tacca sopra ciò che i robot riescono a fare», ha detto Colborn Bell, cofondatore del Museum of Crypto Art.
Proprio gli Nft rivelano il lato quasi anacronistico di larga parte di questo tipo di arte: il legame con quel-che-è-stato. Siamo al cospetto di installazioni, di sculture e di quadri che si proclamano d’avanguardia, ma che, talvolta, ripropongono logiche tradizionali. La radicale innovazione connessa al digitale prevede la messa in crisi dell’idea di autorialità e il trionfo di nozioni come quelle di partecipazione culturale e di creazione collettiva. Nella maggior parte dei casi, invece, le opere d’arte ordinate nella nostra mappa decretano la riscoperta di valori «troppo umani» come quelli di originalità, di unicità, di proprietà intellettuale e di non-replicabilità. Rifiutano ogni forma di liquidità: sognano di essere collezionate, restaurate e musealizzate, provando a fare resistenza al fluire del tempo. Infine, riaffermano, su un registro inedito, il ritorno del concetto benjaminiano di aura: l’opera d’arte sembra ridursi al suo alone religioso, alla sua presenza mistica e rituale. Eppure, forse, per cogliere il senso profondo di quest’arte post-umana, occorre ricordare quel che ha recentemente osservato uno dei maestri della pittura statunitense, David Salle, ora sedotto dagli Nft: «Sin qui non ho visto cose artisticamente interessanti. Il risultato estetico è secondario, un po’ come nell’arte concettuale degli anni Sessanta».
Ma, forse, dietro la fascinazione esercitata dal digitale e dalle tecnologie più avanzate, c’è ancora altro. Un’esigenza metafisica. Un’urgenza primaria, quasi archetipica. In fondo, al di là degli strumenti dei quali si sono serviti, gli artisti, nei secoli, sono sempre stati mossi dalle medesime intenzioni. È quel che aveva sostenuto Edgar Wind in Arte e anarchia: «Bastano una matita o un pezzo di gesso, nella mano dell’artista, per allargare il campo delle sue possibilità al di là dei limiti naturali della sua persona».
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