Bavaglio a Maria Ressa In carcere la giornalista che fa paura a Duterte

 

Paolo Mastrolilli, Francesca Paci

Roma

Sarah come Shady Habash, il giovane regista morto a maggio nel famigerato carcere di Tora per un video musicale in cui criticava il presidente Al Sisi, come la lunga lista di egiziani che spariscono ogni giorno con generiche accuse di «sovvertimento sociale» per ricomparire in un tribunale militare o non ricomparire mai più. Come Giulio Regeni. L’attivista Lgbt egiziana Sarah Hegazi, esule in Canada dal 2018, si è tolta in queste ore la vita che le avevano tolto tre anni fa, quando all’indomani del concerto cairota dei Mashrou Leila l’arrestarono per aver sventolato una bandiera arcobaleno, l’urlo omosessuale nel Paese dove con l’eco di una lontanissima piazza Tahrir strozzata in gola va già bene se qualcuno ancora bisbiglia.
Cosa successe nei cinque mesi trascorsi in cella, quelli per cui Sarah Hegazi si è uccisa, è la discesa agli inferi che lei stessa ha descritto in prima persona due anni fa su «MadaMasr», l’irriducibile sito indipendente egiziano la cui fiera direttrice Lina Attalah è stata a sua volta incarcerata e poi rilasciata alcune settimane fa.
«Vennero a prendermi a casa, davanti alla mia famiglia, un ufficiale mi chiese della mia religione, voleva sapere perché non portassi il velo, se fossi vergine» scrive Sarah dal Canada, emigrata dopo essere stata liberata su cauzione ma prigioniera di spettri feroci. Siamo nel settembre 2018, il presidente Al Sisi è da poco stato rieletto nel voto che i media internazionali rendicontano come «Al Sisi contro Al Sisi».
Sarah racconta su «MadaMasr» la storia di una «rieducazione» come quella toccata in sorte alla transgender Malak al-Kashif e divulgata qualche settimana fa dalla Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’ong che si occupa di Regeni. Dettaglia tutto del suo arresto ed è una testimonianza da rileggere per vivere adesso che non c’è più: viene bendata, portata in un posto nauseabondo, scosse, grida sommesse, l’elettricità, la minaccia di far del male alla mamma, il carcere femminile di Qanater e gli abusi sessuali, l’interrogatorio kafkiano in cui le chiedono di provare che l’omosessualità non sia una malattia riconosciuta dall’Oms e che il comunismo sia diverso dall’omosessualità e che i gay non facciano sesso con bambini e animali.
Non è un Paese per omosessuali l’Egitto, con cui l’Italia ha appena concordato una maxi commessa di armi e a cui il Fondo Monetario Internazionale ha accordato un altro prestito di 2,7 miliardi di dollari. Non è un Paese per donne, laddove le molestie sessuali sono la routine quotidiana e perfino nei giorni gloriosi della rivoluzione del 2011 i militari, accolti allora in tripudio dai manifestanti, sottoponevano le attiviste al test della verginità. Non è un Paese per chi dissente l’Egitto, da quando, complice la guerra contro la Fratellanza Musulmana e quell’ex presidente Morsi morto anche lui in carcere, si è guadagnato crediti nella sfida occidentale all’islamismo e lesina più consigli di quanti ne accetti.
«Gli islamisti e lo Stato competono in estremismo, ignoranza e odio, come lo fanno nella violenza. Gli islamisti puniscono chi dissente con la morte e il regime con la prigione. Sembra una gara a chi è più religioso… » scrive Sarah quando forse crede ancora di poter incollare i cocci della nuova vita canadese, frammenti di un discorso amoroso.
Quando nel 2011 l’entusiasmo per la caduta di Mubarak illuminò agli egiziani un altro orizzonte possibile, i tabù, incistati in una società povera e di massa, erano lì in piazza a mettersi alla prova, come la proverbiale indolenza del «partito del divano». I ragazzi di Tahrir sapevano che l’omosessualità, sebbene non ufficialmente un reato, è lo stigma indelebile, ma in quei giorni si ballava fino all’alba in un piccolo locale al primo piano di un palazzo buio dove a mixare era la 50enne dj Dina, innamoratissima della compagna e madre single. Che sei anni dopo Sarah Hegazi sventolasse l’iride al concerto dei Mashrou Leila, il cui frontman è dichiaratamente gay, sembra una staffetta di resistenza.
Poi però la prigione l’ha spenta. Aveva già tentato il suicidio: una protesta, non una fuga. Un po’ come quello della cantante e coetanea turca Helin Bolek, morta dopo 288 giorni di sciopero della fame contro il governo di Erdogan, arcinemico del Cairo. Resta il messaggio nella bottiglia, le ultime parole di Sarah ai fratelli, agli amici: «Ho cercato di trovare la redenzione e ho fallito, perdonatemi. L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi». Con il mondo è più dura: «Sei stato in gran parte crudele, ma io perdono». Lascia però la porta aperta, domani.

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