Barbero: la mia verità sulle foibe

lo storico interviene sul caso aperto da tomaso montanari
L’Italia è un Paese meraviglioso, dove succedono cose che a sentirle raccontare uno non ci crederebbe. Un esempio: c’è una canzone italiana, popolarissima, conosciuta anche all’estero, dove molti la sanno cantare in italiano, cosa che dovrebbe fare molto piacere a chi ha a cuore l’immagine del nostro Paese. Questa canzone racconta di un italiano che una mattina si sveglia e trova il paese invaso dallo straniero, e decide di andare a morire combattendo contro l’invasore. Uno dice: chi in Italia rivendica con forza l’identità, la nazione, la patria e i suoi valori, e proclama con orgoglio di essere italiano, dovrebbe essere entusiasta di questa canzone. Invece no, è tutto il contrario: chi pretende di difendere l’italianità e la patria, questa canzone non la può sopportare, perché Bella Ciao è comunemente associata alla Resistenza. E ai difensori della nazione, della patria e della religione l’idea che un giorno una moltitudine di italiani, rivoluzionari e conservatori, operai e nobiluomini, comunisti e monarchici e cattolici, civili e militari, si siano sollevati contro un invasore straniero e contro gli avanzi di un regime in cui molti di loro avevano creduto in buona fede e che aveva portato l’Italia alla vergogna e alla rovina, be’, ai nostri odierni difensori della nazione, della patria e della fede questa idea dà fastidio, non riescono proprio a non dimostrare la loro istintiva ostilità verso quei ribelli.
È bene ricordare che questo è il Paese surreale in cui viviamo, per capire l’attuale dibattito sulle foibe e sul loro ricordo. Che non è affatto, sia chiaro, un dibattito sui fatti, ma sul modo in cui lo Stato italiano di oggi s’è incaricato di organizzarne ufficialmente il ricordo. Sui fatti non c’è alcun dubbio, perché i fatti hanno questa caratteristica positiva, di essere roba solida, più solida delle distorsioni che l’ideologia o anche solo la memoria possono produrre. E così è un fatto che ai confini orientali d’Italia si è consumata una tragedia: tra il 1943 e il 1945 i partigiani jugoslavi, via via che occupavano i territori dell’Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia, hanno compiuto stragi di italiani, e molti altri ne hanno deportati in campi da cui la maggior parte non sono tornati, facendo molte migliaia di vittime, spesso uccise in modo atroce e gettate, morte o vive, nelle foibe. Il numero dei morti è, inevitabilmente, oggetto di una controversia non puramente scientifica; le stime più alte danno fino a 11.000 morti, quelle degli storici che personalmente a me paiono più scrupolosi e attendibili arrivano a 5000. Cifre spaventose per un’area geografica così circoscritta, paragonabili a quelle dei caduti della Resistenza, uccisi dai nazisti o dai fascisti di Salò: 5800 solo in Piemonte.
La vicenda delle foibe è senza alcun dubbio unica nella storia recente d’Italia. Il Paese, nella Seconda guerra mondiale, era stato invaso da altri due eserciti stranieri, quello degli Alleati, che dal 1942 si definivano ufficialmente le Nazioni Unite, sbarcato in Sicilia nel luglio 1943, e quello tedesco che dopo l’8 settembre si assicurò fulmineamente il controllo di quasi tutta la parte continentale d’Italia. L’occupazione tedesca produsse un numero enorme di vittime civili, tra deportati, caduti della Resistenza e vittime delle rappresaglie; quella alleata ne fece molte meno, ma al bilancio vanno aggiunte le vittime dei bombardamenti aerei alleati lungo l’intero arco della guerra. Tedeschi e angloamericani sono responsabili della stragrande maggioranza dei 153.000 civili caduti e dispersi per cause belliche, calcolati dall’Istituto Centrale di Statistica. E tuttavia la vicenda delle foibe è, ripetiamolo, unica, perché solo in quel caso quello che allora era territorio nazionale è stato invaso da un esercito straniero che ha compiuto ovunque stragi sistematiche, indirizzate specificamente contro il personale del regime fascista ma che hanno finito per coinvolgere in generale la popolazione italiana, determinando contemporaneamente l’esodo drammatico di una parte dei superstiti.
E dunque è bene che la tragedia delle foibe sia pubblicamente ricordata: perché è una vicenda unica nella storia italiana, e un esempio terribile dei risultati a cui può portare l’odio accumulato per anni, in un territorio dove da secoli convivevano un popolo imperiale, dominatore e portatore d’una civiltà assai sofisticata, e altri popoli tenuti per tanto tempo in condizione subalterna; dove il risveglio del nazionalismo caratteristico dell’Ottocento aveva portato anche quei popoli finora assoggettati a rivendicare la propria lingua, la propria cultura, la propria indipendenza; dove negli ultimi venticinque anni il popolo imperiale, in seguito a una schiacciante vittoria militare, era tornato a imporre con molta più intransigenza la propria supremazia, la propria lingua, il proprio regime politico, liberale prima e poi dittatoriale, senza lesinare il bastone, la deportazione e la galera; e dove negli ultimissimi anni una nuova guerra aveva visto il popolo imperiale allargare ancora il suo dominio in compagnia di un alleato ancora più feroce, e tentare di difenderlo senza lesinare, stavolta, le rappresaglie e le stragi, i villaggi bruciati e i civili fucilati.
L’odio accumulato in quegli anni – che non fu soltanto etnico, ma venne accentuato come avveniva ovunque nel Novecento dallo scontro di opposte ideologie che s’erano abituate a prevedere la morte come unica pena da infliggere al nemico – produsse le atrocità delle foibe, travolgendo indistintamente chi aveva contribuito a creare quell’odio, e chi non aveva nessuna colpa se non di essere italiano. Guai a dimenticare una vicenda del genere, e quello che ci insegna sul modo in cui i nostri nonni hanno creato le condizioni perché le foibe accadessero.
E dunque, benvenuta l’istituzione della Giornata del ricordo, in cui tutti possiamo ricordare con sgomento ciò che accadde tra il 1943 e il 1945 a migliaia di italiani, e ragionare sul perché ciò accadde, e imparare a non riprodurre più i comportamenti che portarono a quella tragedia: il nazionalismo cieco, il disprezzo per l’altro, la certezza che noi abbiamo sempre ragione a tutti i costi, il «right or wrong, my country», l’educazione basata sulla propaganda anziché sullo spirito critico, l’attitudine alla minaccia, all’insulto e alla bastonata anziché alla discussione anche con chi non la pensa come noi.
https://www.lastampa.it/