di Ernesto Galli della Loggia
S ono due le questioni, entrambe di merito, che ha posto la mozione con la quale, su ordine di Matteo Renzi, il Partito democratico ha in pratica sfiduciato il governatore della Banca d’Italia. Una è da giorni ampiamente analizzata, dissezionata e commentata: e riguarda, per l’appunto, la decisione del segretario del Pd di mettere spregiudicatamente in gioco sul tavolo traballante delle sue fortune elettorali l’immagine di un’istituzione incaricata di funzioni importanti e delicate come la Banca d’Italia.
Una mossa che si commenta da sola, e che peraltro sta ritornando come un boomerang addosso al suo improvvido ideatore, a ennesima riconferma di come la sconfitta sul referendum del 4 dicembre sembri davvero — come si dice proprio dalle sue parti — aver «mandato ai pazzi» l’ex premier, il quale da quel giorno non riesce più a riacquistare lucidità strategica né capacità di consenso.
Ma dietro tale questione se ne delinea una seconda. E cioè la questione del modo di essere e di funzionare del meccanismo di decisione nell’ambito delle istituzioni politiche del nostro Paese. In altre parole la questione di cosa sia e come funzioni il potere italiano; di come prenda le sue decisioni. In che modo, ad esempio, vengono nominati i vertici dei maggiori enti ed apparati pubblici?
L’Italia, si sa, non ha la fortuna di essere guidata da un esecutivo forte e stabile nel quadro di una efficace divisione dei poteri.
La nostra Costituzione — complice poi un dna proporzionalistico che risale alle origini ciellenistiche della Repubblica, e grazie anche agli infelici regolamenti delle Camere — ha consegnato il Paese a un regime parlamentaristico-partitico, che essa ha cercato poi di controbilanciare con l’innesto di una figura di presidente della Repubblica dotato di poteri assai ampi, più o meno analoghi a quelli a suo tempo attribuiti al re dallo Statuto.
Il risultato finale è che le decisioni importanti non possono mai essere prese da un unico potere, anche quando formalmente gli spetterebbero, bensì devono necessariamente passare attraverso un diverso e complesso meccanismo: quello della «concertazione». Che in pratica funziona così: per un periodo imprecisato ma raramente breve di tempo (decidere in Italia non è mai questione di ore, quasi sempre neppure di giorni: perlopiù si va avanti a «parlarne» per mesi) due, tre, o anche più poteri — come minimo segretario/segretari del o dei partiti di maggioranza, presidenza del Consiglio, uno o più ministri, presidenza della Repubblica — interloquiscono fra loro e attraverso un contorto gioco di indicazioni, di veti, di scambi, di compensazioni, di promesse a buon rendere, alla fine si mettono d’accordo sul testo di un provvedimento o su un nome. Anche la designazione di una persona capace e meritevole di ogni stima come Ignazio Visco è avvenuta inevitabilmente in questo modo.
Inutile sottolineare le due più ovvie conseguenze negative di un metodo del genere. Innanzi tutto la sua fin troppo facile assimilabilità al «mercato delle vacche», con relativo discredito della politica a maggior vantaggio del qualunquismo di ogni genere e misura; e poi la qualità in genere mediocre di scelte che perlopiù avvengono inevitabilmente all’insegna del compromesso.
In realtà la «concertazione» corrisponde al riconoscimento da ciò che è nelle cose: la frantumazione istituzionale del potere italiano. In Italia tutta l’attività di direzione politica (e non solo) è segmentata e dominata dalla «concertazione», spesso trasfigurata idealmente nella figura dell’«etichetta istituzionale». La quale vuol dire quasi sempre questo: non fare o non decidere alcunché senza essersi sincerati che siano d’accordo tutti coloro che a torto o a ragione potrebbero avere qualcosa a ridire. Cioè, in pratica, non decidere nulla che dia fastidio a qualcuno.
Con la mozione di sfiducia verso Visco Matteo Renzi ha cercato in un certo senso di fermare il tempo: di ritornare alle proprie origini di outsider rimarcando la sua estraneità ai modi d’essere del potere italiano e la sua volontà di contrapporsi ad esso e alla sua «etichetta». Lo ha fatto quasi mimando il ruolo di rottura che ormai da tempo svolge il Movimento dei 5 Stelle; ma non comprendendo che per lui tale ruolo è ormai impossibile. Il tempo non passa invano, infatti. Non si può recitare la parte dell’ outsider , non ci si può chiamare così platealmente fuori, quando da anni si è il capo del principale partito della maggioranza, quando per anni si è stati al governo frequentando il potere in tutti i suoi saloni, stanze e sottoscala. Frequentando il quale Renzi avrebbe dovuto apprendere anche, tra l’altro, che pur in un Paese sbrindellato e maleducato come è ormai il nostro vi sono tuttavia delle istituzioni, degli ambiti operativi, delle sfere pubbliche, non già sottratte per principio alla critica politica, sempre lecita, ma indisponibili a essere trascinati nella polemica estemporanea e nella strumentalizzazione, che sono cose ben diverse.
Voler sanare la patologia del potere italiano, rappresentata tra l’altro dalla «concertazione» e dal suo permanente sottinteso consociativo, è in sé una cosa sacrosanta. E mi pare ovvio che in particolare questo debba essere l’obiettivo di un esponente politico come Matteo Renzi che mira a una forte leadership personale sostenuta da un’adeguato progetto di riforma istituzionale. Ma sbaglia di grosso, e anzi segna solo un autogol, se egli pensa di poterlo fare usando la stizza, cedendo a un moto di rabbia o, peggio, di rivalsa elettoralistica. La verità è che dopo il 4 dicembre il segretario del Pd è ancora alla ricerca di una nuova linea politica in armonia con la sua ispirazione originaria così come di una nuova e più convincente cifra stilistica personale. Ma prendersela con la Banca d’Italia non lo aiuta di certo a trovare né l’una né l’altra.