Si parla tanto di risiko bancario, ma poco si pensa agli effetti sulla concorrenza. Il gruppo assicurativo Unipol sarà il regista del terzo polo, che si affiancherà ai nostri due grandi, Intesa SanPaolo (Isp) e Unicredit. Certo tre è meglio di due, ma come vedremo la cosa è più complicata di così.

C’è nell’economia moderna una forte spinta alla concentrazione delle quote di mercato che, grazie alle connesse economie di scala, riduce i costi unitari e aumenta l’efficienza; i vantaggi rischiano però di andare solo a beneficio dell’impresa “concentrata” capace, per via del suo maggior potere di mercato, di tenere fermi i prezzi e spesso di aumentarli, a beneficio degli azionisti e non dei clienti.

EFFICIENZA E CONCORRENZA

Il governo dell’economia è governo dei suoi conflitti. La concentrazione crea efficienza privata ma si pone in diretta contrapposizione al bene pubblico della concorrenza. Il pendolo oscilla fra le ragioni dell’efficienza e quelle della concorrenza, ma se questa latita spariscono i pregi dell’economia di mercato, lasciandoci soli con i suoi vizi. I difensori della concorrenza sono deboli e divisi mentre i suoi ricchi avversari agiscono compatti.

Le loro divisioni emergono solo per l’opera delle autorità Antitrust, quando un’impresa segnala gli effetti anti-competitivi di una fusione, o auto-denuncia un cartello di cui fa parte, contando su un trattamento di favore. Occorre quindi valutare bene dove mettere il perno del pendolo; esso è troppo soggetto all’attrazione gravitazionale della ricchezza e del potere per poterlo lasciare al centro.

Per contrastare questa forza, il perno va messo il più vicino possibile al polo della concorrenza, e più distante dalla concentrazione.

Per estremizzare, un mercato molto libero ma poco efficiente è meglio, per una democrazia liberale che abbia superato un dato livello di sviluppo, di un mercato molto efficiente, ma poco libero.

LA SVOLTA AMERICANA

Negli Stati Uniti la concorrenza, dopo esser stata per trent’anni la cenerentola dell’economia, ora sta meglio; sullo spostamento di quel perno incidono anche gli attacchi di Anne Case e del marito Angus Deaton (Nobel per l’economia 2015) allo strapotere delle grandi imprese, accusate per il declino della classe media e per le “morti da disperazione” oggetto dei loro studi.

L’amministrazione Biden ha inviato agli uffici federali minute istruzioni contro le concentrazioni, sospettate per gli aumenti dei prezzi, specie alimentari. Ha fatto scalpore la nomina alla Federal Trade Commission (Ftc) di Lina Khan, trentunenne specialista in Antitrust a Yale, sbarcata da Londra, sparuta undicenne, coi genitori pakistani in cerca di fortuna.

Pare quasi il santino di un’America aperta e mobile socialmente: è triste dirlo, ma Khan da noi potrebbe solo sognare un assegno di ricerca, in attesa di maturare, grazie anche al contesto di relazioni personali, la necessaria anzianità.

I Big Tech, che hanno nostalgia di quando la Ftc era un innocuo micino, stan cercando di neutralizzare l’intrusa, chiedendole di non occuparsi di casi su cui ha svolto ricerche; preferivano certo un anziano incompetente nel campo, magari amico di Donald Trump, ma finora Khan resiste impavida. Dai tempi di Mario Monti negli anni Novanta, la Commissione Ue è molto incisiva nel campo, affidato ora alla vice presidente Margrethe Vestager.

Il contrasto fra efficienza e concorrenza è ancor più forte per le banche, la cui stabilità è affidata alla Banca d’Italia che, dopo lunghi negoziati, ha definito i rispettivi compiti con l’Autorità garante di concorrenza e mercato, Agcm; quel contrasto, che nessun sofisma regolatorio potrà mai sciogliere, lo evoca la schermaglia Agcm-Banca d’Italia negli anni Novanta.

La concorrenza non è la prima preoccupazione dei vigilanti bancari, timorosi che faccia calare i margini sotto i livelli di guardia. Se i clienti spaventati scappano, la banca va in crisi, con temibili effetti-domino.

Come dice il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, se una catena di negozi fallisce i clienti vanno altrove, ma se crolla una banca rischiamo la fuga da tutte, a partire dalle più fragili. Sempre in quegli anni Consob, senza successo, spingeva Banca d’Italia a fermare le banche che, in conflitto d’interessi, compra-vendevano con i clienti le loro obbligazioni; preservare quei flussi finanziari contava più della difesa dei clienti.

La cura della stabilità divenne soverchiante con la crisi finanziaria del 2007, che introdusse di fatto una “legge marziale di stabilità”; pareva sedizioso chiedere trasparenza sull’andamento delle banche, specie quotate,cosa paradossale, essendo i cittadini tenuti dalle norme sul bail in a informarsi sulla salute della propria banca, per non divenirne il forzato salvatore.

Ora che la legge marziale non c’è più, dove sta il perno del pendolo fra concentrazione e concorrenza? Dominano il nostro sistema Unicredit e Isp, salita questa di peso con il subentro nelle popolari venete (2017) e l’acquisizione di Ubi Banca (2020).

A un terzo polo sta lavorando il gruppo assicurativo Unipol, primo azionista col 19 per cento di Banca Popolare Emilia Romagna (Bper) e col 9 per cento di Banca Popolare di Sondrio.

Le due banche detengono quasi tutte le azioni di Arca Sgr, gestore di fondi d’investimento da loro collocati. Bper, cresciuta con l’assorbimento degli sportelli ex Ubi (imposto dall’Agcm per dare via libera all’operazione Ubi) ora tratta l’acquisto di Banca Carige (in amministrazione straordinaria da inizio 2019).

Pare evidente l’intenzione di creare un gruppo di banca-assicurazione facente capo a Unipol, ad imitazione di quanto fa già Isp.

Le prime 5 banche han due terzi del mercato in Spagna, il 57% in Italia e poco meno della metà in Francia (secondo uno studio del prof. Mario Comana), ma poco si sa degli effetti delle fusioni sui costi.

È strano che sul tema la letteratura sia quasi inesistente, o risalente ai decenni scorsi. Quando le banche erano troppe e piccole, fioccavano gli studi sui loro alti costi, a supporto della desiderata concentrazione.

Ora però mancano dati sui costi non tanto del credito, quanto dei servizi generatori di commissioni; le banche ottengono gran parte dei margini dai prodotti finanziari e assicurativi, ma solo chi ha ancora fabbriche-prodotto vende merce propria, gli altri sono rivenditori.

Quei margini sono arricchiti dalla segmentazione nazionale del mercato, imposta dalle banche centrali, timorose di travasi di liquidità a beneficio di altri. Restano così fuori potenziali concorrenti in grado di smuovere le acque domestiche.

Per chiarezza, non è che le banche guadagnino troppo, anzi non remunerano i mezzi propri come chiesto dal mercato, dati i loro rischi. Si constata però la carenza di dati sui profitti legati a prodotti solo intermediati, o pensati per le necessità della banca collocatrice, non del cliente.

Il gruppo Unipol vorrà imitare Isp, collocando i propri prodotti sulla rete delle banche ove ha rilevanti investimenti. Sarà necessaria una penetrante vigilanza sulle pratiche commerciali di banca-assicurazione, resa più facile per il passaggio della vigilanza assicurativa dal disastrato Isvap all’Ivass, ora in Banca d’Italia e presieduta dal direttore generale Luigi Federico Signorini.

IN CERCA DI MARGINI

Se i grandi supermercati finanziari diminuiscono, difficilmente perderanno margini. Chi detiene posizioni rilevanti non ingaggerà guerre commerciali per scalzare un nuovo arrivato che saprà come piazzare la propria merce. E per alcuni tre è il numero del perfetto oligopolio.

Ma è tutta la gamma dei servizi finanziari a dover subire accurati esami che ne assicurino la trasparenza, a beneficio della clientela. I regolatori dovrebbero facilitare ogni iniziativa, anche di fonte Fintech, capace di rompere posizioni di pura rendita commerciale.

Un discorso simile, ma diverso, riguarda i margini estratti dalle private bank ai loro clienti; è strano che queste se ne vantino spesso sulla stampa, senza accorgersi che qualcosa pare non quadrare, forse con una certa impudenza.

Il livello dei loro margini, ignoti a quasi ogni altra attività lecita, è difficilmente spiegabile senza accordi, magari orali, di non concorrenza fra i principali operatori.

Essi saranno lieti di potersi avvantaggiare anche della naturale riluttanza di tanti clienti a mettere in piazza i dettagli, e magari perfino la provenienza, del patrimonio. Non manca certo, anche qui, il lavoro per un’Agcm che voglia davvero lasciare un segno.