La buona notizia è che da quando nel 2000 è stato approvato il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dell’infanzia relativo al coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati (l’età minima per la partecipazione diretta agli scontri a fuoco è stata spostata dai 15 ai 18 anni e sono stati vietati il servizio di leva o il reclutamento forzati al di sotto dei 18 anni), il numero di Paesi che ha ristretto ai soli adulti l’accesso alle armi è passato dagli 83 del 2001 ai 130 del 2017 e quello riguardante i gruppi armati non governativi o irregolari che si sono impegnati a ridurre o eliminare del tutto l’utilizzo dei minorenni è salito a 60. Grazie a questi avanzamenti e al rafforzamento progressivo di leggi internazionali recepite dai singoli Stati, l’obiettivo ‘Straight 18’ (nessun reclutamento sotto i 18 anni) sta lentamente divenendo la norma.
La pessima è che, nonostante ciò, tra i 250.000 e i 300.000 bambini sono ancora coinvolti attivamente in conflitti in tutto il mondo. Sono dotati di ogni tipo di armamenti, vengono utilizzati come scudi umani, veri e propri soldati, come staffette, spie inviate oltre le linee nemiche, o come factotum negli accampamenti militari. Le ragazze, oltre a svolgere tutti questi ruoli, sono anche costrette a prestare servizi sessuali.
La Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, convocata ogni anno per il 12 febbraio – data in cui, nel 2002, il protocollo sopracitato è entrato in vigore dopo l’adozione dell’Assemblea generale dell’ONU nel 2000 – getta luce su uno spaventoso fenomeno e chiama tutti i leader mondiali, i governi così come la società civile, a mobilitarsi perché vi si ponga fine.
Secondo l’ONG Child soldiers international – molto attiva nelle campagne di consapevolezza del fenomeno oltre, ovviamente, a UNICEF e altri organismi – al momento sarebbero 50 gli Stati del mondo che permettono di reclutare minorenni, mentre quelli che li utilizzano regolarmente in forma diretta o indiretta nei conflitti sono 23. A questi vanno aggiunti i numerosi gruppi armati non governativi, attivi in varie parti del mondo.
Nella “list of shame” che il segretario generale delle Nazioni Unite stila ogni anno, compaiono i Paesi in cui i bambini vengono utilizzati più frequentemente di altri come effettivi nei conflitti. Quella del 2017 ne comprende 7: Afghanistan, Myanmar, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria e Yemen. Accanto a loro, nella infame classifica, figurano anche 56 gruppi armati irregolari quali i Mai-Mai Nyatura in Congo, il Kachin independence army in Myanmar, i Talebani in Afghanistan o l’esercito dello Stato islamico in Iraq e Siria: tutti utilizzano i bambini come combattenti in grandi quantità. In alcuni casi, anche per attacchi kamikaze. Oltre a quei sette, poi, vi sono casi documentati nella Repubblica Centrafricana, il Ciad, la Repubblica Democratica del Congo, Filippine, Iraq, Mali e Colombia. Ma anche in Costa d’Avorio, Libia, o in India, Pakistan, Israele/Palestina e Tailandia, vengono costantemente registrati casi di bambini con il fucile in mano. Spesso si tratta di Paesi firmatari del protocollo, poco attenti alle sue applicazioni.
Ma l’insana idea di reclutare minorenni nelle forze armate non riguarda solo nazioni in via di sviluppo. A leggere le statistiche di Stati che ammettono tra i ranghi dei propri eserciti minori di 18 anni si resta senza dubbio sconcertati a notare tra essi Paesi quali Australia, Francia, Germania e Stati Uniti (l’ammissione può avvenire dai 17 anni in su) o Brasile, Canada e Inghilterra in cui si possono imbracciare armi e vestire una divisa addirittura dai 16 anni. Solo due dei Paesi del G7, Italia e Giappone – a completare il quadro allarmante – hanno recepito e introdotto nei propri ordinamenti legislativi i principi di Straight 18.
Il percorso di reintegrazione di un bambino che anche per un giorno sia entrato in un conflitto è complicatissimo. Oltre allo shock, dovrà lottare con lo stigma, specie se è di sesso femminile. «È preferibile morire che tornare ed essere rifiutate». «Non passava un giorno senza che ci facessero capire che eravamo stati nella foresta». «Per ogni ragazza tornata c’era un dito puntato: ecco la signorina HIV». Sono solo alcune delle testimonianze raccolte tra ragazzini minorenni tornati dalla guerra e inseriti in percorsi di recupero da Child soldiers international in Congo. «Il primo passo – spiega Rachel Taylor, direttrice dei programmi della ONG – è liberare i bambini dalla guerra ma il processo di reinserimento nella società è qualcosa che a volte può risultare più difficile. I bambini, specialmente le ragazze, patiscono gravi discriminazioni ed il lavoro che dobbiamo fare va in due direzioni: su di loro e verso la comunità di origine».
Il mondo sta divenendo un luogo sempre più pericoloso per i bambini. Secondo quanto afferma l’UNICEF, circa 1 su 4 vive in un Paese colpito da conflitti o disastri naturali e lo aspetterà un futuro molto incerto.
Vessati da stati permanenti di tensione in molte aree del mondo, colpiti da disastri naturali o carestie, costretti ad arruolarsi in eserciti o gruppi armati gestiti da uomini senza alcun tipo di scrupolo, un numero enorme di bambini vive la quotidianità come un incubo.
Il futuro del mondo, visto dalla loro prospettiva, è cupo e inquietante, mentre dal nostro suscita angosciose domande. Per tutti la speranza risiede su due fondamentali elementi: affetto e scuola, come spiegano bene queste due ragazze del Nord Kivu: «Ringrazio chi ha compreso tutti i miei problemi. Mi ha dato la gioia di sentirmi di nuovo parte di una comunità». «Da quando sono ritornata a scuola tutti si interessano a me e mi chiedono consiglio su ogni cosa. La situazione è cambiata totalmente e tutti ora mi rispettano e mi invitano quando c’è da prendere una decisione negli incontri dei giovani».