Umberto De Giovannangeli, L’Huffington Post 29/Nov/2014
“Ingiustizia è fatta. Il regime ha assolto se stesso e non solo Hosni Mubarak. Ha assolto se stesso dal sangue versato, dalla corruzione che ha arricchito il “clan Mubarak” e una nomenklatura che in buona parte si è riciclata e continua a dettare legge. Nessuno è responsabile di quelle centinaia di vite spezzate, quei morti sono fantasmi, esistiti solo nella nostra fantasia. Ma così non è stato e non sarà mai. Da tempo avevano “assassinato” lo spirito di Piazza Tahir, ora hanno oltraggiato la memoria di coloro che hanno sacrificato la propria vita per il bene supremo: la libertà”. Ad affermarlo, in questa intervista concessa all’Huffington Post, è Nawal El Saadawi,l’autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. Medico, psichiatra, già docente alla Duke University, Nawal El Saadawi, 83 anni, è autrice di romanzi, racconti, commedie, memorie, saggi.
Per le sue attività politiche e i suoi scritti a sostegno dei diritti delle donne, si scontra ripetutamente con il regime del Cairo e nel 1981, durante la presidenza di Sadat, viene incarcerata. Negli anni Novanta è costretta all’esilio. Nel maggio 2008, vince la causa intentata contro di lei per apostasia. Le battaglie e i libri sulla condizione delle donne nella società egiziana e araba hanno esercitato una profonda influenza sulle generazioni degli ultimi trent’anni. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo araba, la scrittrice egiziana, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. Sin dai primi giorni della rivolta contro l’”ultimo Faraone” (Hosni Mubarak), la scrittrice si è schierata dalla parte dei giovani protagonisti della “Primavera egiziana”. Ed oggi, con la consueta passione civile e lucidità intellettuale, afferma: “Non riusciranno a riportare indietro le lancette del tempo a prima della rivoluzione” del gennaio-febbraio 2011.
Hosni Mubarak non doveva essere processato per la morte di 239 manifestanti durante la rivolta del 2011 che portò alle sue dimissioni. Così ha stabilito il giudice della Corte d’Assise del Cairo. Pertanto non sarà né assolto né condannato. L’ex ministro dell’Interno Habib el Adly e sei capi dei servizi segreti sotto processo insieme all’ex rais sono invece stati assolti dall’accusa di omicidio. Quali sono i suoi sentimenti di fronte a questo verdetto?
Rabbia, tanta rabbia. Dolore, indignazione per lo scempio di verità e di giustizia perpetrato. Quel verdetto va oltre l’ambito giudiziario, ed entra a pieno titolo nella Storia. Segnandone una pagina nera, perché assieme alle assoluzioni decretate, c’è anche una sentenza di morte pronunciata: quella contro la verità e la giustizia che le famiglie delle vittime e i milioni di egiziani che avevano riempito Piazza Tahrir reclamavano. E questo sarebbe l’Egitto della legalità di cui il presidente al-Sisi vagheggia? Il futuro da lui indicato e di cui questa sentenza è parte, altro nome non ha che quello di restaurazione. Una restaurazione che per imporsi usa tutti i mezzi, la repressione in piazza, la “legge” nei tribunali. Per costoro il futuro è il ritorno al passato.
Nessun colpevole. Queste parole segnano l’atto di morte della “Primavera araba” che ha avuto il suo cuore in Piazza Tahrir?
No, anche se questo è ciò che i nuovi-vecchi padroni dell’Egitto vorrebbero sancire. Dico no, perché quelle istanze di libertà e di giustizia che sono state alla base di quella rivolta popolare non sono venute meno. Esse vivono soprattutto nelle giovani generazioni, quelle che hanno dato vita, in quei giorni e anche oggi, alla “cyber rivoluzione”, quella che si manifesta nei social network e non solo nelle piazze. Quei giovani sono il bene dell’Egitto, ed io continuerò ad essere al loro fianco.
In prigione resta il presidente deposto Mohammed Morsi.
Come lei sa, non ho mai lesinato critiche ai Fratelli musulmani, per la loro idea arcaica e sessuofobica della società, per come hanno gestito il potere. Ma la Fratellanza andava sconfitta nelle urne, nella battaglia politica e delle idee e non riempendo le carceri dei loro dirigenti, non trasformando le piazze in un campo di battaglia. So bene che c’è chi, nei giorni del putsch militare, aveva pensato ai generali come a dei liberatori. La realtà ha smentito questa illusione.
C’è chi parla di provocazione e chi teme una nuova stagione di violenza.
Mi auguro di no, perché continuo a credere che esistano altre forme per manifestare il sacrosanto diritto all’indignazione. Ma certo, il timore c’è. Vede, una sentenza del genere fa il gioco di quei gruppi estremisti che oggi potranno dire: non esiste altra giustizia che quella imposta con la forza. Temo che dopo questa sentenza un discorso del genere possa avere ancora più presa tra i giovani. E questo è terribile. E’ terribile l’idea che la giustizia possa venire solo dall’uso della forza, o che giustizia divenga sinonimo di vendetta, e giudice di carnefice. Ho paura di quanti cercano di cavalcare rabbia e frustrazione, ma lo anche di chi, cinicamente, preferisce fare i conti con il terrorismo piuttosto che accettare un confronto vero, libero, alla pari.
Il Medio Oriente sembra diviso tra presidenti-generali (come al-Sisi” e “califfi” sanguinari come Abu Bakr al-Baghdadi. È davvero così?
Se fosse così, solo così, ci troveremmo di fronte a una tragedia che non ha dispiegato ancora tutta la sua devastante potenzialità negativa. O una dittatura militare mascherata da “democrazia” oppure la folle dittatura della sharia imposta da questi tagliagole. In mezzo c’è la società civile, ci sono milioni di persone, in prima fila le donne che sono state protagoniste di una lotta per una duplice liberazione: quella da regimi corrotti, dispotici, teocratici, e la liberazione da una asfissiante società patriarcale. Questa doppia liberazione non potrà certo venire da al-Baghdadi ma nemmeno dai restauratori del passato.
Resta, l’Egitto, un Paese che aspira alla normalità e alla sicurezza.
È vero. Ma normalità e sicurezza non sono, o almeno non dovrebbero essere, alternativi, in conflitto con aspettative altrettanto importanti: un lavoro, la giustizia sociale, un vero pluralismo che si dispieghi in tutti gli ambiti della vita pubblica, a partire dal campo dell’informazione. Ecco, questo è l’Egitto che ho sognato assieme ai giovani di Piazza Tahrir. Ed è questo l’Egitto per il quale vale la pena continuare a battersi. Senza giustizia non potrà mai esserci una vera democrazia. Insisto su questo punto. Da un regime liberticida a uno Stato di diritto: questo è il sogno che i ragazzi di Piazza Tahir volevano realizzare. Un Paese dove la libertà di espressione non fosse più una rivendicazione che apre le porte della galera e la corruzione il motore dell’economia. Di questo sistema Hosni Mubarak è stato per trent’anni il perno. Averlo assolto significa anche questo: dimostrare che anche senza il “Faraone” quel sistema continua a vivere e a dettar legge”.
Allargando l’orizzonte oltre l’Egitto e abbracciando l’intero Medio Oriente, c’è un popolo che a suo avviso segnato più degli altri dall’ingiustizia?
Certamente, ed è il popolo palestinese. Costretto a vivere in una prigione a cielo aperto quale continua ad essere Gaza, derubato delle sue terre, sottoposto ad un regime di apartheid da parte israeliana. Riconoscere ai palestinesi il diritto ad un loro Stato, e realizzare questo diritto, sarebbe il risarcimento minimo che la comunità internazionale deve a un popolo oppresso da decenni.