i paletti della creatività
di Enrico Nistri
Ogni evento epocale suscita aspettative palingenetiche, che dalla sfera dei rapporti sociali si spostano sul terreno delle scelte urbanistiche. Insieme al nostro modo di vivere, il Coronavirus ci sfida a ripensare il modo di progettare la città. Per fortuna a Firenze nessuno pensa a una politica di sventramenti come quella che il colera degli anni ’80 del XIX secolo favorì in molti centri urbani, né s’impone l’esigenza di una bonifica urbanistica. La nostra città è stata risparmiata da ecomostri come il Corviale o lo Zen e l’Isolotto è un quartiere a misura d’uomo. Ma quali aspetti privilegiare nella progettazione del nuovo? Fra chi privilegia la spettacolarità e chi rivendica la funzionalità il confronto è aperto; fra il grigio cemento a vista che imperversò nei plumbei anni ’70 e i palinfraschi postmoderni esistono posizioni intermedie, così come nuovi stimoli provengono al progettista dagli sviluppi della bioarchitettura. Non sarebbe sbagliato tornare all’insegnamento di un’archistar del I secolo a.C.: Marco Vitruvio Pollione. Il suo capolavoro, il De Architectura , stabilisce un principio tuttora valido, indicando come dovere dell’architetto coniugare solidità (firmitas ), utilitas e bellezza (venustas ). Due millenni dopo il problema rimane questo. Tutti sono bravi a progettare edifici con splendide vetrate, in cui però senza l’aria condizionata si soffoca, o a costruire tozzi parallelepipedi da edilizia popolare sovietica. Qualcuno, come il progettista del Palazzo di Giustizia di Roma, riuscì a non soddisfare nessun requisito, costruendo, come disse Lionello Venturi, «una massa di travertino in preda al tetano», con sale delle udienze troppo grandi e camere di consiglio troppo anguste, come a sua volta lamentava Piero Calamandrei. In passato il lavoro dell’architetto era paradossalmente facilitato dalle difficoltà tecniche. L’esigenza della firmitas obbligava a ricorrere a colonne e archi, che conferivano venustas alla costruzione. La diffusione del cemento armato ha affrancato l’architetto da preoccupazioni statiche, ma questa liberazione non sempre ha giovato all’estetica, un po’ come la rivoluzione del verso libero non ci ha regalato un Leopardi risparmiando al poeta la fatica di contare le sillabe. Tornare a Vitruvio potrebbe significare forse proprio questo: ricordarci che anche l’architettura ha una sua metrica e che spesso proprio un’apparente limitazione della libertà creativa ha favorito la nascita delle creazioni più belle.