Sono queste le due nuove categorie della politica dopo la pandemia In un mondo diviso tra chi si sente “responsabile” e chi invece “vittima”
di Carlo Galli
Acomplicare il quadro di una politica debole su cui incombe la sfida fortissima della crisi economica c’è il lascito dei modi con cui l’epidemia è stata vissuta. Covid 19 ha suscitato molte emozioni e molte riflessioni. È stata interpretata ora come complotto ora come punizione; ora come minaccia di estinzione ora come speranza di rigenerazione.
Il fatale laboratorio di Wuhan, in cui si manipolava (a quale fine?) il virus, lo ha rilasciato per errore, per criminale trascuratezza, o per diabolico calcolo politico- economico? O qualche tycoon di livello mondiale è stato interessato a generare disastri e a trarne fantastici guadagni fabbricando gli antidoti al veleno che ha fatto preparare? La pandemia, secondo queste ipotesi, è un male perpetrato da malvagi, contro i buoni, gli innocenti. Ma da un altro punto di vista è una meritata punizione per l’arroganza e per la dismisura della nostra civiltà, che ha alterato gli equilibri naturali e sconvolto i ritmi vitali, favorendo il “salto di specie” del virus: la malattia come confusione mortale, come contagio universale. Anche le conseguenze possibili del morbo sono opposte: l’estinzione, il degrado ferino, dell’umanità, oppure il nuovo inizio, le speranze di rinascita, di nuova alleanza dell’uomo con se stesso e con la natura. Ne usciremo peggiori, secondo gli uni; migliori, secondo gli altri. Più schiavi di controlli sempre più duri e pervasivi, oppure più liberi e solidali.
Queste grandi paure e queste grandi speranze sono archetipi teologici: nell’ Apocalisse ne sono depositati molti. La peste vi figura, insieme alla guerra, alla carestia e ad altre piaghe, come risultato delle seduzioni del demonio e al tempo stesso come flagello divino – del resto, gli untori erano visti sia come messi di Satana sia come strumenti della collera celeste –; e alla fine del mondo, all’estinzione dell’umanità peccatrice, si accompagnano la vittoria di Cristo sul diavolo, il rinnovamento universale, la rinascita integrale: «io faccio nuove tutte le cose».
Certo, queste idee oggi si presentano meno enfatiche e spettacolari: sono secolarizzate, adatte al nostro tempo. Il Dio terribile di vendetta e di giustizia è diventato la Natura, che ci punisce per i nostri peccati anti-ecologici; la superbia di Babilonia si è globalizzata, è la civilizzazione occidentale estesa vittoriosamente a tutto il mondo – soprattutto alla Cina –; il complotto politico- economico ha preso il posto del demonio; la ritrovata solidarietà sociale, il “nuovo modello di sviluppo”, o il cambiamento radicale della Ue, hanno sostituito la fede nella redenzione dei giusti.
Si tratta di schemi interpretativi ricorrenti: solo per fare un esempio fra i molti possibili, Ludovico Antonio Muratori, padre della storiografia italiana, in un suo libro del 1714, Del governo della peste , univa alla sobria e razionale ricerca scientifica sulle cause e sui rimedi dell’epidemia la convinzione che la malattia fosse una “guerra divina”, un castigo di Dio per i peccati dell’umanità. Il che implicava che oltre a sforzarsi di circoscriverla con l’umano ingegno e con l’umana industriosità, si dovesse anche pensare a migliorare le anime dal punto di vista morale e religioso.
Nelle diverse forme che hanno assunto, questi schemi esprimono istanze profonde della nostra civiltà, danno voce e volto ai suoi fantasmi; e la qualificano come una “civiltà della ragione” che è anche, al tempo stesso, “civiltà della colpa” – secondo l’intuizione di antropologhe come Ruth Benedict e Margaret Mead –; una colpa, un peccato originale, sotto il cui segno si sviluppa la nostra storia con i suoi trionfi e con le sue crisi; e queste contengono in sé l’alternativa fra il pentimento rigenerante (individualmente, la conversione; politicamente, la rivoluzione) e la diabolica perseveranza nell’errore (che perpetua l’insoddisfazione individuale e collettiva).
La pandemia ci ha stressato tutti, ma ci ha anche diviso fra coloro che chiedono di recuperare la precedente “normalità” e coloro che sperano in un grande cambiamento, temendo la persistenza degli errori del passato.
In realtà, queste istanze hanno un retroterra più complesso: appunto, il bisogno di riconoscersi in colpa e di correggersi, oppure di cercare i colpevoli del disastro fuori di noi, fra i “malvagi”. Nella società si sta quindi formando una frattura che non coincide con la tradizionale distinzione fra destra e sinistra, né con il più recente conflitto fra mainstream e protesta antisistema, ma le interseca entrambe. Elaborate attraverso questi schemi secolarizzati, epidemia e carestia – in coppia, come vuole la tradizione – si rafforzano a vicenda: i prossimi probabili risentimenti di origine economica cadranno su un terreno già emotivamente instabile, attraversato da speranze deluse e da rancori di profonda origine psicologica; e la loro miscela costituisce un fattore politico che sarà rischioso ignorare o sottovalutare.