Conviene stare attenti, ma anche lasciarsi andare. C’è un punto di equilibrio, tra questi due atteggiamenti. Molti studiano studiano e imparano l’arte. Ma bisogna essere aiutati dalla natura, altrimenti manca qualcosa. Se ti sforzi troppo si vede. Devi assecondare. Andrea Verrocchio fu orefice, studioso di prospettiva, scultore, intagliatore, pittore e musicista. Salì molto in alto. Però nell’arte della pittura e della scultura ebbe una maniera dura e crudetta, se capisci quello che voglio dire, proprio per il suo infinito studio.
«Non pensare troppo, rilassati, respira» gli diceva Donatello, che gli insegnò molte cose. Ma a lui piaceva pensare. Quando provava a pensare meno gli veniva sempre in mente un nuovo pensiero. «Lo vedo che stai pensando» gli diceva Donatello, e ridevano insieme.
Nella giovinezza mentre studiava da orefice si dedicò alla scienza, in particolare alla geometria. Nel battistero di San Giovanni realizzò due storie d’argento e conobbe il Cecca, che inventò una creatura meccanica che puliva i mosaici. Poi Sisto IV lo chiamò a Roma dove lavorò come orefice meravigliosamente. Vide un’antica statua equestre di Marco Aurelio e pensò: «Ecco cosa voglio fare: statue di bronzo!» e fuse in bronzo statue che piacquero. Allora pensò: «Il bronzo alla lunga è stancante. Mi sento pronto per scolpire il marmo». In quei giorni morì la moglie di Francesco Tornabuoni, o forse era Giovanni, ma non importa. Il punto è che Andrea ebbe l’opportunità di lavorare al sepolcro scolpendo il marmo. Anche la sua prima opera di marmo fu ritenuta molto buona e tornò a Firenze pieno di soldi e gloria e gli commissionarono opere su opere. Modellò storie d’argento e scolpì quadri di marmo. Aprì una bottega dove si faceva di tutto. Non plasmava solo la materia morta. Aveva un occhio formidabile per la materia umana e accolse giovani artisti destinati a riempire i musei di mezzo mondo, per esempio Leonardo Da Vinci.
Realizzò un Davide in bronzo, un giovane con un cauto sorriso, che forse è Leonardo ragazzino. La tomba di Giovanni e Piero de’ Medici, in San Lorenzo, una struttura così particolare che è meglio andare a vederla, perché è pericolosissimo affaticarsi troppo nelle descrizioni, che sono una forma di studio. Poi c’era da mettere in Orsanmichele una statua con San Tommaso incredulo di fronte a Cristo risorto e i fiorentini, litigiosissimi, non si mettevano d’accordo se dovesse farla Ghiberti o Donatello. I due morirono e i fiorentini non se ne accorsero e continuarono a litigare allora la fece Verrocchio, ed è bellissimo vedere la faccia di Tommaso: dubbioso, ostinato, ma anche pieno di amore verso Gesù. Andrea fu elogiato da tutti e avrebbe potuto continuare così per tutta la vita: ormai la strada era in discesa. Ma lui voleva durare fatica, voleva osare, esplorare sempre nuovi territori. Pensò: «Un pittore, da qualche parte dentro di me deve esserci un pittore!» ed ecco dei disegni così belli che Leonardo ci ripensava sempre.
In quel periodo la cupola di Santa Maria del Fiore era finita e bisognava fare la palla di rame da mettere in cima, secondo l’ordine lasciato da Brunelleschi. La fece Andrea, con grande ingegno, ci si poteva anche entrare da sotto e doveva resistere al vento e alle intemperie, come la sua mente alle idee sempre nuove.
Nel frattempo realizzò la statua di un putto di bronzo che stringe un pesce e quella in marmo di una donna che stringe un mazzolino di fiori. Aveva bisogno di lavorare a più opere contemporaneamente altrimenti si stufava. Dipinse dei quadri e gli parve di aver fatto bene. Lavorò a un quadro in cui san Giovanni battezza Cristo e fu aiutato da quel ragazzino con quel sorrisetto: Leonardo, che dipinse l’angelo a sinistra. Era così bravo che Andrea disse: «Ah, va bene» posò i pennelli e non li riprese mai più. Un po’ era ammirato e un po’ innervosito. Prima di tutto Leonardo era bellissimo, e non si può dire lo stesso di Andrea, e poi Leonardo non si sporcava mai, e non si può dire lo stesso di Andrea. E poi Leonardo sosteneva che le figure non devono essere contornate da un rigo nero perché in natura il rigo nero non esiste.
«Te lo do io il rigo nero» mormorava Andrea. Aveva un amico, Nanni Grosso, scultore e pittore, che gli ripeteva: «Pensi troppo» «Me l’hanno già detto». Nanni era rigoroso: lavorava solo in posti che avessero vicino una cantina dove lui potesse bere senza chiedere il permesso ed era un artista nel non affaticarsi. Andrea per quanto fosse affascinato dalla sua saggezza non riusciva ad imitarlo. In questa sua ansia di opere nuove cominciò a fare teste di quelli che morivano, lavorando una pietra dolce che si prende a Volterra e a Siena. Questo uso è poi diventato di moda ed è comodissimo, per sapere che faccia avessero le persone. Divenne amico di Orsino ceraiuolo e realizzarono ingegnose figure con cera e legno. Quando ci fu l’attentato che portò alla morte di Giuliano e al ferimento di Lorenzo de’ Medici fecero statue in cera di Lorenzo e le misero qua e là per Firenze così tu giravi l’angolo ed eccoti Lorenzo che pareva vivo e ti ricordava che con lui non c’era da scherzare.
Lo chiamarono a Venezia per un monumento equestre, il secondo del Rinascimento. Ripensò all’antica statua di Marco Aurelio e andò. Trovò il modo di far stare il cavallo con una zampa per aria, non c’era riuscito neanche Donatello. Venne fuori che Andrea avrebbe fatto il cavallo e Vellano da Padova il cavaliere. Vellano da Padova, pensa te! Un impiccione che sosteneva di aver imparato il mestiere da Donatello. Allora Andrea ruppe la testa al cavallo e tornò a Firenze. I Signori di Venezia gli scrissero: «Caro Andrea, non tornare a Venezia o ti tagliamo la testa». Lui rispose: «Sarebbe un peccato, non sapreste riattaccarla, specie una testa come la mia. Mentre io saprei rimettere a posto la testa del cavallo». La risposta piacque, allora Andrea tornò a Venezia e lavorò alla statua. Era quasi finita quando morì. Lorenzo di Credi, l’allievo più amato, nonché erede, prese le sue ossa e le portò a Firenze affinché riposassero e invece sparirono, perché anche da morto voleva darsi da fare. Secoli dopo Bukowski scrisse: «Tutto quello che scrivo suona bene perché quando scrivo è come se scommettessi. Molti sono troppo attenti. Studiano, insegnano e sbagliano». È il tema di questa Vita. Però: pensare troppo e studiare sempre fu per Andrea Verrocchio un modo per scommettere e per vivere. Un’ansia che lo rese felice.
- Domenica 8 Ottobre, 2017
- CORRIERE FIORENTINO
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