Fu la prima donna a competere in bicicletta insieme agli uomini. La sua storia è una delle tante del Festival Sócrates di Roma dedicato allo sport
di Simona Baldelli
Nel riquadro della finestra splendeva la luna crescente. Aveva superato di poco la metà e la parte in ombra sembrava lo spicchio di un’arancia marcita prima di maturare. Chissà dove sarebbe andato ad attaccarsi il Luna 2, se nel punto illuminato oppure sulla fetta oscura.
Ma cosa t’importa, Alfonsina, cosa t’importa, si domandò.
Era stata una fortuna che avessero lasciato la serranda sollevata, almeno aveva qualcosa di bello da guardare. Di fronte a sé, c’era la parete bianca su cui ballavano ombre azzurrine. Sulla destra, lo schermo del macchinario a cui era collegata da fili che partivano da ogni angolo del corpo. Ma sull’altro lato, c’era la moneta sbilenca d’argento che schiariva il cielo. Il pensiero tornò alla navicella decollata quella mattina stessa per raggiungerla. La sorella maggiore, il Luna 1, a gennaio non aveva avuto fortuna e aveva mancato il satellite di poco, appena 6.000 km. Alfonsina si era chiesta quanto tempo avrebbe impiegato per fare in bicicletta quell’ammanco di strada. Con 300 km al giorno, meno di tre settimane; ma il tragitto dalla terra alla luna era di una lunghezza spropositata e non era riuscita a calcolarlo. Per non parlare della fatica necessaria.
Il macchinario mandò un ronzio.
Si impedì di guardare lo schermo. Non voleva sapere nulla di quelle righe gialle, verdi e rosse che tracciavano l’andamento del sangue e del cuore. Se s’impennavano, avevano un tempo regolare, oppure degradavano verso una linea piatta.
Ma che ne sapeva quell’aggeggio di salite e discese, di curve a gomito o rettilinei sterminati verso cui l’orizzonte converge e la strada sembra una freccia. Non conosceva nulla di ciò che le era caro; ma forse, se lei fosse stata in grado di leggere il tracciato di pressione, sistole e diastole, le avrebbe detto quanto tempo le restava. Poco, su questo non c’erano dubbi.
E così, Alfonsina, la tua strada ormai ce l’hai alle spalle.
Come avrebbe dovuto impiegare il corto spazio che mancava al traguardo? Avrebbe potuto ripensare a tutte le cose fatte e viste un colpo di pedale dopo l’altro, per esempio; le sconfitte, la gloria, la paura, le facce care, gli incitamenti e gli insulti.
Ma era roba passata, che importava più. Aveva trascorso la vita con lo sguardo puntato in avanti, allargando l’orizzonte, e le toccava andarsene con la testa voltata all’indietro. Che sconforto.
Un altro ronzio si aggiunse a quello del macchinario, ma veniva da fuori. Una pallina lampeggiante puntava dritta in direzione della luna ma, all’improvviso, cambiò la traiettoria; uno zigzagare confuso sopra la cresta delle montagne in lontananza. Poi rallentò, fece una giravolta su sé stessa, oscillò come un pendolo, infine, parve voltarsi in direzione dell’ospedale e fissare la finestra col suo occhio a intermittenza. Ti aspetto, sembrava dirle.
Sono matta fino all’ultimo, rise fra sé Alfonsina.
Guardando il puntino luminoso si era convinta che fosse il Luna 2, insicuro sulla direzione da prendere e venuto lì a chiedere aiuto.
Ma non la so la strada per la luna, mormorò.
Il lampeggiante rimaneva lì, ostinato.
Madonna santa, che le venisse concessa un’ultima impresa? Che toccasse a lei indicare la via alla sonda sperduta?
Ma come ci vado lì, come ci vado, si chiese.
Si aggiunse un terzo mormorio. Ai piedi del letto, nuova e scintillante, era apparsa la Maino avuta in dono di nozze dal marito, insieme a un nome che era un destino.
Le si aprivano due possibilità: restare nel letto in attesa di una medicazione, o la mesta processione dei conoscenti per il saluto d’addio, o avviarsi verso un’ultima fatica.
La bicicletta si chinò un poco di lato. Scese dal letto, si liberò dei tubicini e andò ad aprire la finestra.
Con un mormorio sfiatato il macchinario si spense.
Alfonsina salì sulla Maino. Dopo pochi colpi di pedale volava nel cielo di Milano, come quei poveretti del miracolo visto al cinema, che cercavano un posto nel mondo e un pezzetto di felicità.
Fece cenno alla sonda di seguirla: se c’era qualcuno capace di indicarle la strada era lei, Alfonsina, che era stata mille e mille volte la notte, fin dai tempi scuri dell’infanzia a Fossamarcia, col naso all’insù a chiedere alla moneta d’argento dove fosse il limite.
Il Luna 2 le strizzò l’occhio intermittente e si mise sulla scia.
L’aria era una carezza dolce, il blu pareva cobalto, e i pedali giravano senza sforzo. Aveva pensieri senza fine. Poteva andare veloce, oppure rallentare e godersi il panorama incantato. O cantare un valzer e invitare la sonda a ballare.
Qualsiasi cosa desiderasse.
Io sono sconfinata, pensò.