A Torino la rivolta degli ultimi così in periferia è montata la rabbia

La zona nord della città è quella che maggiormente sperimenta povertà e abbandono, soprattutto dopo il lockdown
paolo griseri
torino
Sono arrivati di notte, sbucati in centro nel buio per infrangere il loro tetto di cristallo sociale, le vetrine dei negozi di lusso. Da dove venivano? E soprattutto, perché lo hanno fatto? Il giorno dopo, quando si raccolgono i cocci di una nuova rivolta nella storia di Torino, è doveroso chiedersi perché per la seconda volta in sette anni, il centro è diventato lo scalpo di chi abita in periferia, in case lontane chilometri (e parecchi punti di pil) dai privilegiati della ztl.
Per provare a capire bisogna andarci in quella periferia che a Torino è soprattutto la zona nord, già serbatoio sociale della rivolta dei forconi nel 2013 («siamo arrivati fin qui e adesso non ce ne andremo», prometteva in piazza Castello un ragazzo di Barriera di Milano) e l’altra notte gridavano ai poliziotti: «Voi avete il lavoro e io no, figli di p.».
Il quartiere più povero
I numeri dicono che nei quattro quartieri della zona settentrionale della città vivono i due terzi delle persone che percepiscono il reddito di cittadinanza e sono seguiti dai servizi sociali. Il più povero di questi quartieri del disagio è la circoscrizione 6, Barriera di Milano. Si accaparra gran parte dei 6.200 assistiti del quadrante. Non è mai stata una zona ricca.
Carlotta Salerno è nata in queste case e oggi guida la circoscrizione: «Hai presente gli alberi in montagna? Servono a tenere insieme la terra. Se li abbatti arrivano le frane. Noi abbiamo fatto così, adesso arriva la valanga». Usciamo dalla metafora per favore: «Certo. Fino a marzo c’erano le scuole. Gli insegnanti e i gruppi di lavoro servivano ad esercitare un controllo soprattutto sui ragazzi più giovani. Capivano quali erano in difficoltà, davano un aiuto, i casi più gravi li segnalavano ai servizi sociali. Poi è arrivato il lockdown. Scuole chiuse, chiusa la rete di controllo sociale, tutti confinati in alloggi di 50 metri quadrati. Hai presente che cosa vuol dire vivere in cinque stretti in pochi metri quadrati nelle case popolari? Non ti viene certo voglia di uscire a cantare sui balconi. I casi sono due: o ti deprimi o ti arrabbi. In genere i genitori che perdono il lavoro si deprimono. I figli quindicenni, invece, si arrabbiano. Sarà schematico ma è così».
Lunedì notte, davanti alle vetrine di via Roma, sono arrivati gruppi di adolescenti, hanno rotto le vetrine e hanno arraffato borsette, sciarpe, vestiti: «Spogliavano i manichini e litigavano tra di loro per la divisione del bottino», raccontano i testimoni oculari. Una rivolta mossa dalla fame? «Soprattutto alimentata dalla rabbia, dalla voglia di sfregiare l’altra città, quella che li tiene lontani», spiega il sociologo Roberto Cardaci che da decenni studia la lunga storia della povertà torinese.
L’altra città è quella che vive fuori dal centro, che dice «quelli di Torino» pur avendo casa a due chilometri da piazza del Municipio. La città dei poveri che come un vulcano, periodicamente erutta la lava della rabbia. Il primo ad averlo percepito quel risentimento era stato, nel 2015, il vescovo Cesare Nosiglia. All’omelia della festa di San Giovanni, patrono di Torino, aveva parlato di «due città che vivono una contro l’altra». Era successo un putiferio. La politica si era ribellata. «Mi telefonarono dal Municipio per protestare», ricorda ancora oggi il monsignore. Ma non servì. L’immagine ebbe successo perché già allora era vera. La metafora divenne il cavallo di battaglia della campagna elettorale grillina. Appendino promise che avrebbe colmato il divario con il centro. I numeri della povertà torinese prima ancora delle vetrine infrante di via Roma dicono che cinque anni dopo quelle promesse il divario è rimasto.
Non era facile colmarlo. Certo era più difficile nella realtà che nei facili annunci elettorali. Anche prima del Covid le condizioni di Torino nord sono rimaste difficili. È in questa parte di città che si concentrano gran parte delle richieste di aiuto al banco alimentare. «La mensa per poveri alle spalle della parrocchia della Resurrezione è una di quelle più frequentate», racconta Pierluigi Dovis, direttore della Caritas torinese. E spiega che il Covid ha finito per dare il colpo di grazia a molte famiglie già in difficoltà. «Rispetto a fine 2019 i pasti delle mense sono aumentati del 40%. Oggi serviamo tra le 2.500 e le 3.000 persone al giorno».
Tutto questo non spiega, tantomeno giustifica la violenza di lunedì ma le dà un contesto, può renderla meno sorprendente per quella parte di Torino che ha visto arrivare all’improvviso la violenza sotto i portici della città aulica. «Il vero problema è che la Torino del centro continua a raccontarsi una città che non c’è più e anzi le sta franando intorno». L’analisi è di Giorgio Airaudo, segretario della Fiom del Piemonte. Che aggiunge: «La crisi sega la base della città piramidale. Appiattisce verso il basso il livello di vita dei quartieri della classe media, le terre di mezzo come Santa Rita». Ci sono quartieri come Mirafiori dove gli interventi di riqualificazione hanno dato i loro frutti nei decenni. Ma dove oggi sono spesso gli anziani a mantenere con la pensione i figli precari.
La vergogna del licenziamento
La sintesi, il tentativo di spiegare la nuova rabbia di Torino è di Carlotta Salerno: «Sai qual è il carburante di questa violenza? È la vergogna. La vergogna di perdere il lavoro, capita a molti di coloro che lo avevano precario, in nero, non certificabile. La vergogna di non potersi guadagnare da vivere. Molti li devi andare a cercare, non vengono a bussare, non ne hanno il coraggio».
Tocca alle nuove generazioni prendere il testimone della rabbia. Lunedì sera, per la prima volta a Torino, c’erano anche quindicenni magrebini a fronteggiare la polizia. Scena impensabile pochi anni fa, quando le seconde generazioni degli immigrati non avevano ancora l’età per scendere in piazza. Un nuovo soggetto nel complicato puzzle sociale di Torino. Città dal futuro sempre più sospeso che vive nell’incertezza tra puntare ancora sulla manifattura o su nuove vocazioni economiche: «Il rischio – chiude Airaudo – è che la città guardi al futuro solo pensando al suo passato».
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