Parlare di critica letteraria oggi, nel mondo in cui viviamo, è rischioso almeno quanto è rischioso parlare di pace. Questa non è un’epoca pacifica, e non è nemmeno un’epoca critica. Nell’Europa degli ultimi dieci anni, vedere affermata la critica letteraria di vecchio stampo – una critica giudiziosa, scrupolosa, di buon senso, che tratta l’opera d’arte come una cosa dotata di valore intrinseco – è stato praticamente impossibile. Se guardiamo indietro alla letteratura inglese dell’ultimo decennio – magari non tanto alla letteratura, quanto all’attitudine letteraria predominante – ciò che salta all’occhio è la graduale scomparsa dell’estetica. La letteratura è stata sommersa dalla propaganda.
Non è mia intenzione affermare che tutti i libri scritti in questo periodo siano mediocri, ma gli scrittori che hanno caratterizzato questa fase, come Auden, Spender e MacNeice, sono stati scrittori didattico-politici, senz’altro esteticamente consapevoli, ma più interessati all’argomento che alla tecnica. E la critica più vivace è stata quasi interamente opera di scrittori marxisti come Christopher Caudwell, Philip Henderson ed Edward Upward, che vedono ogni libro potenzialmente come un libello politico e sono molto più propensi ad indagare le sue implicazioni politico-sociali che le sue reali qualità letterarie. Ciò è tanto più evidente perché, così facendo, si produce un contrasto netto e improvviso con il periodo immediatamente precedente. Gli scrittori caratteristici degli anni Venti del Novecento – ad esempio T. S. Eliot, Ezra Pound e Virginia Woolf – enfatizzavano la tecnica. Avevano le loro convinzioni e i loro pregiudizi, ovviamente, ma erano molto più interessati alle innovazioni tecniche che a qualsiasi morale, significato o implicazione politica che il loro lavoro potesse contenere. Il migliore di tutti, James Joyce, era un tecnico e poco altro, così vicino a un artista “puro” nella misura in cui uno scrittore può esserlo. Persino D. H. Lawrence, sebbene fosse qualcosa di più di uno “scrittore con uno scopo” rispetto alla maggior parte dei suoi contemporanei, non aveva molto di ciò che dovremmo ora chiamare coscienza sociale. E anche se mi sono limitato agli anni Venti, già dal 1890 in poi è stata la stessa cosa. Durante tutto quel periodo, il principio secondo cui la forma è più importante dell’argomento, e l’idea di art for art’s sake, «l’arte per l’arte», erano dati per scontati.
Sia l’estetica che l’atteggiamento politico nei confronti della letteratura sono stati prodotti, o comunque condizionati, dall’atmosfera sociale di un certo periodo. E ora che un’altra epoca è terminata – l’attacco di Hitler alla Polonia nel 1939 ha concluso sicuramente una fase, come la grande crisi del 1931 ne ha chiusa un’altra – possiamo concludere e vedere più chiaramente di alcuni anni fa il modo in cui le attitudini letterarie sono influenzate dagli eventi esterni. Ciò che colpisce chiunque guardi indietro agli ultimi cento anni è che la critica letteraria della quale vale la pena occuparsi, e l’atteggiamento critico nei confronti della letteratura, esistevano a malapena in Inghilterra tra il 1830 e il 1890 circa. Non si vuole certo affermare che in quel periodo non siano stati prodotti buoni libri. Molti degli scrittori di quel tempo, Dickens, Thackeray, Trollope e altri, saranno probabilmente ricordati più a lungo di quelli che sono venuti dopo di loro. Ma non ci sono figure letterarie nell’Inghilterra vittoriana del calibro di Flaubert, Baudelaire, Gautier e moltissimi altri. Ciò che ora ci appare come scrupolosità estetica è a stento esistita. Per uno scrittore inglese dell’età medio-vittoriana il libro era in parte una fonte di guadagno e in parte un veicolo per evangelizzare il pubblico. L’Inghilterra stava cambiando molto rapidamente e una nuova classe monetaria era sorta sulle rovine della vecchia aristocrazia; il contatto con l’Europa era stato interrotto insieme a una lunga tradizione artistica.
Gli scrittori inglesi della metà del diciannovesimo secolo erano barbari, anche quando si trattava di artisti dotati come Dickens. Ma nella fase successiva del secolo il contatto con l’Europa fu ristabilito attraverso Matthew Arnold, Pater, Oscar Wilde e vari altri, e il rispetto per la forma e la tecnica in letteratura è tornato in auge. È ad allora che risale la nozione di «arte per l’arte»: una frase ormai fuori moda, ma penso la migliore a disposizione. E il motivo per cui poteva prosperare così a lungo, ed essere così tanto data per scontata, era che l’intero periodo tra il 1890 e il 1930 fu di eccezionale benessere e sicurezza. Era quello che potremmo chiamare l’età dell’oro del periodo capitalista. Nemmeno la Grande Guerra la sconvolse davvero. Quest’ultima ha ucciso dieci milioni di individui ma non ha scosso il mondo come lo farà e come lo ha già fatto la guerra attuale. Quasi tutti gli europei tra il 1890 e il 1930 vivevano nella tacita convinzione che la civiltà sarebbe durata per sempre. Si poteva essere individualmente fortunati o sfortunati, ma si aveva la sensazione che nulla potesse cambiare radicalmente. È in un contesto simile che l’indolenza intellettuale e il dilettantismo germogliano. È quel sentimento di continuità, di sicurezza che poteva consentire a un critico come Saintsbury, conservatore di vecchia data e alto ecclesiastico, di essere scrupolosamente giusto coi libri scritti da uomini la cui visione politica e morale egli detestava. Ma dal 1930 quel senso di sicurezza non è più esistito. Hitler e il crollo finanziario lo distrussero come nemmeno la Grande Guerra e persino la Rivoluzione russa erano riuscite a fare.
Gli scrittori apparsi dopo il 1930 hanno vissuto in un mondo in cui non era solo la vita a essere costantemente minacciata, ma l’intero sistema di valori. In tali circostanze l’indifferenza non è contemplata. Non si può avere un interesse puramente estetico per una malattia di cui si sta morendo; non si può avere un atteggiamento spassionato nei confronti di un uomo che ci sta per tagliare la gola. In un mondo in cui fascismo e socialismo si fronteggiavano, ogni individuo pensante sentiva la necessità di schierarsi, e i sentimenti dovevano trovare la loro strada non solo negli scritti ma anche nei singoli giudizi sulla letteratura.
La letteratura doveva diventare politica, perché qualsiasi altra cosa avrebbe comportato la disonestà intellettuale. Gli attaccamenti e le repulsioni erano troppo vicini alla superficie della coscienza per essere ignorati. Gli argomenti trattati nei libri sembravano così importanti che lo stile e la forma in cui questi venivano scritti passavano in secondo piano. E questo periodo di circa dieci anni in cui la letteratura, e persino la poesia, si mescolavano con gli opuscoli di propaganda, ha favorito ampiamente la critica letteraria, perché ha distrutto l’illusione del puro estetismo. Ci ha ricordato che la propaganda, in un modo o nell’altro, si nasconde in ogni libro, che ogni opera d’arte ha un significato e uno scopo – politico, sociale o religioso – e che i nostri giudizi estetici sono sempre carichi dei nostri pregiudizi e delle nostre credenze. Ha sfatato il mito dell’arte per l’arte, ma ci ha anche condotto, per il momento, in un vicolo cieco, perché ha persuaso innumerevoli giovani scrittori a cercare di vincolare il proprio pensiero a una dottrina politica che avrebbe reso certamente impossibile l’onestà intellettuale. L’unico sistema di pensiero possibile per loro in quel momento era il marxismo ortodosso, il quale esigeva una lealtà nazionalistica nei confronti della Russia e costringeva lo scrittore che si definiva marxista a confondersi con le disonestà dei giochi di potere. E anche se una prospettiva simile poteva essere auspicabile, i presupposti su cui questi scrittori si erano basati furono improvvisamente scardinati dal Patto russo-tedesco. Proprio come molti scrittori del 1930 avevano scoperto la difficoltà di mantenere un certo distacco dagli eventi contemporanei, allo stesso modo molti scrittori del 1939, continuando a scrivere, si scoprivano incapaci di sacrificare la propria integrità intellettuale in favore di un’ideologia. La scrupolosità estetica non è sufficiente, ma neanche la rettitudine politica.
Gli eventi degli ultimi dieci anni ci hanno disorientato: hanno lasciato l’Inghilterra priva di una rilevante vocazione letteraria, ma ci hanno aiutato a definire, meglio di quanto fosse possibile prima, le frontiere dell’arte e della propaganda.