Il Monte di Letta (Siena tra due simboli)

La difesa del marchio della banca e la sfida elettorale: un intreccio, anche lessicale

di Roberto Barzanti

 

I nomi, spesso anche i simboli, sono consequentia rerum , conseguenti alle cose, ai fenomeni che devono tramandare e contrassegnare. Dimostrazione palese sono le accanite discussioni di questi giorni sul destino dell’antico marchio del Monte dei Paschi e, più di recente, sul simbolo elettorale della lista che sarà capeggiata da Enrico Letta alle prossime suppletive in agenda il 3-4 ottobre.

Due vicende diverse ma simultanee, in un’imprevedibile congiuntura. La sorpresa del disco rossastro — non è un sole al tramonto, assicurano — con in alto un secco «Con Enrico Letta» senza alcun accenno al Pd ha lasciato di stucco i fedelissimi dem e i nemici della personalizzazione post-partitica.

Mentre il marchio, ma i più preferiscono dire stemma, della banca chiama in causa vicende legate a filo doppio ad un radicato immaginario. Anche se la denominazione ufficiale dopo la trasformazione del 1995 è Banca Monte dei Paschi di Siena Spa, Rocca Salimbeni è rimasta il Monte, al maschile, come quando era un venerando Istituto di credito di diritto pubblico. E il nome emanava così un’attitudine rassicurante, paterna e protettiva: solido culmine di una geografia psicologica. Questa inflessione derivava dalle origini quattrocentesche, quando fu eretto su sollecitazione dei francescani e con espliciti intenti di assistenza alle «povere o miserabili o bisognose persone ne’ loro bisogni et necessità». E fu il Comune stesso a deciderne il 4 marzo 1472 la costituzione.

Perché Monte? Nel lessico del tempo la parola indicava una compagine, i malevoli direbbero un’ammucchiata, un’unione o un raggruppamento tesi a tenere insieme beni o associare persone. Monti erano chiamati pure le parti, o le fazioni. E Monte designava inoltre un luogo di raccolta di denari o depositi a termine per sovvenire chi non era in grado di rivolgersi a chi praticava prestiti esosi. Questi organismi non disdegnavano la qualifica di Monti di Pietà, anche se laici: dunque il Monte nacque come Monte Pio, in concorrenza con chi si distingueva per un’usura senza scrupoli. Con gli anni subentrò una certa debolezza e non mancarono scandali clamorosi. In un diario si legge un giudizio sferzante circa la discordanza tra fini proclamati e obiettivi perseguiti: «A questo modo la Vergine Maria è pelata», derubata. Sicché nacque nel 1568 un secondo Monte, dopo la rovinosa caduta della Repubblica, ed infine ecco apparire, a fianco del Monte Pio, il Monte moderno, attivo dal 1625: «non vacabile», perché il Granduca impose di inserire nello Statuto limiti che evitassero lo svuotamento delle casse e garanzie basate sui «paschi», i pascoli cioè, della Maremma. Non a caso fu salvaguardato il nome originario: per quel gusto di sancire una continuità con l’ispirazione cristiana originaria e per quell’attaccamento nominalistico alle cose che illude della loro sopravvivenza anche quando siano radicalmente mutate nella sostanza.

Dopo ch’ebbe assunto verso la fine del Settecento il profilo di una vera e propria banca si serbò l’aulica nomenclatura. E si seguitò fino a qualche anno fa a chiamare deputazione amministratrice il Cda e provveditore chi avrebbe dovuto sfoggiare il titolo di Ad. Se il Monte allunga la sua secolare ombra sulla Spa e la Fondazione si è resa operativa per le erogazione sociali e culturali del territorio, questo passaggio epocale non è stato avvertito in tutta la sua profondità. L’abuso dell’impronunciabile acronimo Mps suscitò mugugni: «Questo ‘ps’ mi sa di pubblica sicurezza, per me il Monte resta il Monte!».

Ora che si sono diffuse le voci di una trasmigrazione del marchio Mps o in ambiti spaziali limitati o accanto al Mediocredito centrale sono accresciuti i timori che venga assottigliato di parecchie unità l’apparato direzionale di stanza a Siena: «Ci vogliono comprare perfino il marchio». I simboli trascinano o cancellano ciò che nobilitavano, l’araldica di una città sgomenta e disorientata ma decisa a non arrendersi del tutto.

E qui s’innesta il tema dell’altro simbolo, quello che il centrosinistra ha inventato per la campagna elettorale già iniziata. «Il Pd che fine ha fatto? Hanno paura che quel simbolo faccia perdere voti dopo tanti errori fatti». Non si tratta di un capriccio. Se i nomi devono rispecchiare ciò che effettivamente rappresentano, il disco rosso della lista di Letta evidenzia un’operazione verità. Più che di una strutturata coalizione, il segretario del Pd dovrà declinare un discorso che inviti alla confluenza non solo gli appartenenti al suo partito ma quanti condividono le idee di elettori e elettrici che si riconoscono in esigenze comuni. Italia Viva dice a denti stretti di fornire il suo sostegno. I pentastellati non avevano in animo di presentarsi. I comunisti avevano escluso di puntare su una vana candidatura solitaria. Sicché a sinistra si avrà solo Potere al popolo col suo smilzo gruzzolo di aderenti. Sarà una corsa a due ruote. Da un lato l’antico scudo del Monte, dall’altro il cerchio col nome di Letta: un Monte, avrebbero detto secoli fa.

 

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