La favola dell’Università autonoma.

LA POLEMICA
SACROSANTO far conoscere le patrie galere a gente che trucca concorsi, minaccia o ricatta candidati. Ma quale punizione infliggere alle “alleanze” tra politici digiuni di ogni esperienza formativa, pachidermiche burocrazie ministeriali e baronetti specializzati nella complicazione di affari semplici, che da decenni fanno e disfanno sul corpo vile della nostra Università? Conosce il pubblico qualcosa di questo scandaloso, normale regime fatto di norme assurde, procedure illogiche, prodotto di oscuri maneggi tra chissà quali “autorità” politiche e accademiche annidate in quel di viale Trastevere? UN REGIME che è andato trasformando la nostra Università secondo modelli centralistici degni di un Paese del “socialismo reale”? La sbandierata autonomia delle Università è una pura favola; solo un fantasma ne può esistere, se manca una effettiva autonomia nell’offerta didattica, se il piano di studio deve essere elaborato secondo tabelle e tabelline, calcoli e combinazioni tra “crediti”, ore di lezione e così via, il tutto dettato da chissà quali tabellarische Menschen, come li avrebbe chiamati Hegel; non c’è alcuna autonomia se le Università non sono in grado di competere tra loro a tutto campo, e dunque anche di regolarsi autonomamente nella formazione del proprio corpo docente. La riforma delle riforme comincerebbe solo con l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Padrone poi lo Stato di selezionare i docenti nelle proprie scuole, medici, architetti, magistrati, ecc. attraverso propri concorsi, come d’altra parte già adesso avviene.
Ma il colmo dell’irrazionalità lo si è raggiunto proprio con le procedure concorsuali, oggi al centro dell’attenzione. Anche le precedenti presentavano come chiodo fisso il “controllo dall’alto” di tutte le operazioni, ossessione panottica che mai al mondo ha impedito ciò che sembra essere avvenuto a Firenze, ma che sempre di sicuro impedirà il formarsi di autentiche scuole all’interno di autentiche Università. I meccanismi oggi in vigore vi aggiungono un pizzico di sana follia. All’insegna del “precario è bello” si sono eliminati i posti a tempo indeterminato per chi inizia la carriera. Bene così. Poi si è deciso di procedere istituendo una sorta di permanente esaminificio per l’abilitazione ai posti di ruolo per associati e ordinari.
L’abilitazione – concorso pubblico, di Stato! – non dà però diritto ad alcun titolo (a differenza della vecchia libera docenza), non conta per alcun concorso che l’abilitato intenda affrontare nella pubblica amministrazione (idem per il dottorato – anche questo titolo non ha alcun valore legale al di fuori della stessa carriera universitaria). E scade dopo qualche anno. L’abilitato sarà allora costretto a ri-abilitarsi, fino a quando una qualche sede universitaria non abbia deciso di chiamarlo. Che avviene? Che le diverse sedi, a meno di miracolose circostanze, tendono “naturalmente” ad assumere i “propri” abilitati. E per gli altri? Cieche o quasi speranze, nessun diritto e nessuna tutela.
Può così accadere, grazie a un tale regime, che un signore abilitato per ordinario, magari in più materie, non riesca a sfangarsi un posto da ricercatore. O magari concorra per tale traguardo e venga pure bocciato. Non faccio nomi, per non danneggiare ulteriormente gli interessati, ma si sappia che costoro si contano a decine. Non basta. Tra un concorso e l’altro burocrati e geniali colleghi di viale Trastevere trovano anche il tempo per inventarsi qualche nuova regola riguardo al valore dei titoli da presentare, così che, ad esempio, capita che una rivista prima considerata di fascia A oggi non lo sia più, oppure lo sia per uno dei settori disciplinari, combinati spesso con spirito “creativo”, ma non più per un altro. Il candidato già a suo tempo abilitato dovrà perciò cercare affannosamente di rientrare in “medie” e altre corbellerie, in base alle quali un Wittgenstein non sarebbe stato assunto a Cambridge neanche come bidello. L’intero sistema è un meraviglioso paradigma di come creare ricercatori frustrati, costringere giovani intelligenze a produrre “titoli” a rotta di collo anziché aiutarli a pensare e a maturare, favorire in ogni modo la loro emigrazione. La magistratura ci liberi dai baroni che commettono reati – ma chi ci libererà da questi nipotini degeneri di Francesco De Sanctis?
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/