di Federico Fubini
Il passo indietro e i timori per l’invasione di campo della politica
È dall’estate scorsa che progressivamente il consiglio d’amministrazione di Unicredit, ben prima che vi entrasse Pier Carlo Padoan, aveva indicato una via a Jean Pierre Mustier sul Monte dei Paschi di Siena: l’amministratore delegato poteva perseguire l’acquisizione, caldeggiata dal governo, ma solo se alla banca non fosse costata niente. La condizione era che il ministero dell’Economia azionista di Mps al 68,2%, dopo averla salvata nel 2016, avrebbe dovuto fornire a Unicredit garanzie simili a quelle offerte a Intesa Sanpaolo quando nel 2017 assorbì Veneto Banca e la Popolare di Vicenza in liquidazione. In forme diverse, il governo avrebbe dovuto sussidiare l’operazione con circa cinque miliardi e mettere l’acquirente al riparo dai rischi legali accumulati a Siena negli ultimi anni.
L’arrivo di Padoan in consiglio non ha cambiato questa linea e l’ex ministro dell’Economia, designato per la presidenza della banca, non ha assunto su Mps una posizione diversa da quella degli altri consiglieri e di Mustier stesso. A un’azienda dal capitale frammentato, con BlackRock come primo socio al 5,075%, l’idea di integrare Mps assumendo costi finanziari e rischi legali appariva impraticabile. Questa strada, preferita dal Movimento 5 Stelle a Roma, per l’istituto milanese per ora resta chiusa.
Cinque osservatori indipendenti fra loro, in condizioni di sapere, tracciano un quadro diverso della vicenda che sta portando all’uscita di Mustier. Le origini vanno indietro nel tempo e incrociano la rotta precaria dell’Italia, con l’ombra che si allunga del debito pubblico e della politica condizionata dal populismo. Tutto nasce nell’autunno 2018, quando la prima proposta di bilancio del governo Lega-M5S fa esplodere il costo del debito in Italia. Alla fine quell’esecutivo dovette cambiare i piani, ma Mustier inizia comunque a temere lo scenario di un declassamento dell’Italia a «junk» (spazzatura) da parte delle agenzie di rating. E una banca basata in un Paese in quelle condizioni non potrebbe fare acquisizioni in Germania o in Francia.
Nasce così l’idea di una «sub-holding» separata di Unicredit a Monaco di Baviera, presso la controllata Hypovereinsbank, da cui perseguire una fusione europea. Il rischio Italia, finanziario e politico, andava in qualche modo segregato. Di certo però si insabbia presto l’opzione di un matrimonio più o meno alla pari con la francese Société Générale: in parte per la difficile chimica personale fra Mustier stesso e il suo omologo di SocGen Frédéric Oudéa, ma soprattutto perché il consiglio della banca parigina non si fida del tutto di un istituto milanese con titoli del Tesoro italiani per 40 miliardi in bilancio. Gli stessi timori per l’esposizione sul debito di Roma, in un contesto politico fragile, porteranno Mustier alla decisione di vendere un’azienda efficiente come Fineco nel 2019. Nel frattempo anche la strada di un’integrazione con Commerzbank in Germania appare in salita e la conquista di Ubi da parte di Intesa Sanpaolo relega Unicredit al ruolo di seconda per netto distacco nel mercato italiano.
Di qui l’attrito crescente fra il consiglio e l’amministratore delegato che nel 2017 di fatto ha salvato la banca rafforzandone il patrimonio per 20 miliardi. Di certo né i grandi azionisti esteri, né la vigilanza della Banca centrale europea apprezzano la rottura improvvisa in piena pandemia, senza piani di successione. Ma poiché Unicredit è una banca sistemica, sarà la Bce ad avere l’ultima parola sul nome del successore di Mustier. E non accetterà figure di seconda fila, né piani di corto respiro.
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