La qualità dell’investire per costruire il futuro

 

di Mauro Magatti

 

Per scalare la montagna delle macerie lasciate dal coronavirus — risollevare l’economia e contrastare la diffusione della sofferenza sociale — occorre cambiare passo. Per dirla con linguaggio consulenziale, adottare un diverso «mind set» (mentalità).    Negli anni a venire, la possibilità di creare prosperità dipenderà, più che dalla stimolazione dei consumi, dalla qualità degli investimenti. Non che i primi non siano importanti. Ma 1) da soli, non basteranno; 2) sono comunque difficili da incentivare dipendendo dalla fiducia (che non c’è), dalla redistribuzione reddito (che è sempre un nodo politicamente delicato), dal profilo demografico (che è rigido); 3) hanno forti controindicazioni dato che il loro aumento, a parità di condizioni, innalza l’entropia, vera origine di molti nostri problemi.

Il tema si è letto in filigrana anche nel retroscena del durissimo negoziato Ue per il Recovery Fund: il dubbio che i Paesi del sud, e in particolare l’Italia, siano in grado di adottare la disciplina dell’investimento è stato un argomento usato dai «frugali».

E, al netto delle altre questioni (difesa di interessi economici, obiettivi elettorali, diffidenze culturali) che hanno ballato nella trattativa, occorre ammettere che in questa critica c’è del vero.

La nuova centralità degli investimenti si fonda su diverse ragioni. In primo luogo, come nelle fasi post belliche, serve iniettare risorse aggiuntive per innescare processi di sviluppo di medio-lungo termine. Senza dimenticare il tema della protezione sociale, riaprire la prospettiva di futuro moltiplica le risorse finanziarie e rigenera quelle psichiche. In secondo luogo, investire è la chiave per cambiare il nostro modello di sviluppo. Sostenibilità e digitalizzazione configurano una profonda riorganizzazione del modo di produrre, distribuire e consumare.

Ma tale trasformazione ha bisogno di investimenti, unica via per incidere sullo stato delle cose senza limitarsi al puro adattamento. In terzo luogo, solo gli investimenti possono permettere di aumentare la produttività che, in modo particolare per l’Italia, costituisce un fattore grave di ritardo sistemico. Usare meglio le risorse disponibili è un obiettivo che si raggiunge tornando a investire. Infine, e non è cosa da poco, la centralità degli investimenti consente di confrontarci e discutere sulle priorità che vogliamo perseguire, cioè sulla direzione di senso dello sviluppo. D’altra parte, già prima del coronavirus, nel mondo manageriale era ormai diffusa l’idea che il purpose (scopo) dovesse venire considerato un ingrediente essenziale per il futuro di ogni organizzazione (aziendale e ancor di più politica).

Fattore umano

Si tratta anche di puntare sulle persone,

la loro formazione,

la loro intelligenza,

il loro senso civico

All’interno di questa nuova cornice, l’idea di investimento va però qualificata, almeno da tre punti di vista.

In primo luogo, non c’è dubbio che occorrano risorse pubbliche (dello Stato nazionale e dell’Europa), senza le quali tutto diventa più difficile se non impossibile. Ma attenzione che il ruolo delle risorse pubbliche non «spiazzi» il contributo, ugualmente importante, del mondo privato. Sia nella responsabilità degli imprenditori di scommettere sul futuro; sia nella capacità di mobilitare i risparmi — in Italia particolarmente cospicui — in vista del raggiungimento di obiettivi di sviluppo territoriale. Ciò significa calibrare bene il rapporto tra la definizione di programmi e progetti (concezione I) con lo stimolo all’imprenditorialità e all’iniziativa diffusa (concezione bottom up). Non si tratta di contrapporre questi due poli. Ma di renderli compatibili senza dimenticare nessuno dei due. Senza il primo, oggi non si va da nessuna parte. Senza il secondo non si arriverà a sprigionare quell’energia necessaria per l’azione di rilancio che pure si vuole promuovere.

In secondo luogo parlare di investimenti significa tornare ad allungare l’orizzonte temporale della nostra vita individuale e collettiva. Non si può dare per scontata questa ridefinizione. Al fondo vi è il riconoscimento del legame che esiste tra le generazioni. Un tema particolarmente ostico in Italia dove l’accumulazione del debito pubblico, il blocco demografico, la fuga delle nuove generazioni sono aspetti di quell’unica sindrome di brevissimo periodo tra consumerismo, clientelismo e assistenzialismo, che è stata la versione provinciale con cui l’Italia ha (per lo più) interpretato l’epoca storica alle nostre spalle.

Infine, parlare di investimento significa non cadere nell’errore di concentrarsi unicamente sulla dimensione infrastrutturale o strumentale. Certo che abbiamo bisogno di nuovi ponti, di una rete digitale più efficiente, di robot e intelligenza artificiale. Ma tutto questo non servirà a nulla se non investiremo contemporaneamente nelle persone, nella loro formazione, nella loro intelligenza, nel loro senso civico. Il ritardo del nostro Paese riguarda tanto il piano infrastrutturale quanto (e forse ancor di più) quello umano.

L’etimologia latina della parola investimento indica l’atto di «mettere in possesso» attraverso una veste ornamentale. Mi sembra una bella immagine: in fondo, l’investimento altro non è che il vestito con cui ci immaginiamo di entrare nel futuro, l’idea di noi stessi e della società che vogliamo raggiungere. Ed è esattamente da qui che dobbiamo ripartire.

 

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