Le baruffe continue di Renzi e Calenda e quelle nozze impossibili al centro

Il progetto di una nuova area moderata frenata da una serie infinita di litigi e ripicche tra i due leader di riferimento
di Giovanna Vitale
ROMA — La disfida del centrino. Non fosse un luogo più immaginario che reale, comunque troppo piccolo per contenerli entrambi, sarebbe il titolo dell’ultimo feuilleton in programma sugli schermi della politica italiana. Talmente intasati dalla perenne logomachia dei due protagonisti a caccia dell’Arcadia moderata, da aver trasformato un progetto serio in una specie di commedia all’italiana. Dove i promessi sposi, Carlo e Matteo, anziché incamminarsi verso l’altare si mandano cordialmente a quel paese. Spoiler: meglio star soli, che impalmare quello lì.
Un interminabile siparietto fatto di battute e risposte al vetriolo. Recitato ora in romanesco, ora con morbido accento toscano: roba che se ZeroCalcare se ne accorge ci fa subito una striscia su Netflix. «Ma chissenefrega della Leopolda!» sbotta Calenda quando gli chiedono della kermesse fiorentina, variante del più prosaico «nun me ne po’ frega’ de meno» appioppato al disegno renziano di unificazione dei cespugli riformisti. L’altro, di solito, incassa e non replica, affidando l’incombenza allo scudiero Migliore (Gennaro, deputato di Iv). Salvo perdere la pazienza dinnanzi all’ennesimo ramoscello d’ulivo lasciato cadere dall’avversario. «Mi sembra impossibile andare divisi alle prossime elezioni», s’accalora l’ex premier rivolto a Enrico Costa, forzista transitato in Azione, ospite della tre giorni gigliata. Neanche 24 ore e l’appello torna al mittente, con un ceffone a mo’ di francobollo: «Renzi faccia quel che gli pare», tuona in tv l’ex ministro dello Sviluppo, «vada in Arabia Saudita, faccia il centro con Toti e Brugnaro. Non farò politica con lui perché quel modo di fare politica mi fa orrore». Troppo per il senatore di Scandicci, che stavolta impugna la penna e nell’ultima news letter discetta d’invidia e ingratitudine: «C’è chi ironizza sulla Leopolda, dopo aver fatto carte false per parlare dal palco quando era una manifestazione di persone che avevano potere. Capita di incrociare persone così». Se non è un addio, poco ci manca.
Sono settimane che va avanti. Da quando hanno smesso di sentirsi e iniziato a farsi dispetti. In Campidoglio sono renziani i due consiglieri più votati fra le fila dei calendiani: pronti a divorziare per formare un gruppo autonomo a sostegno del sindaco Gualtieri. In Parlamento, uguale: «Ma che ci fate ancora con quello? Non capite che vi porta tutti a fondo?» è il refrain intonato dagli “azionisti”. Subito riferito a “quello”, che naturalmente s’infuria e ordina la controffensiva. Sui social. «Non ricordo questi toni di Calenda quando i voti dei candidati di Iv hanno consentito alla lista che portava il suo nome di essere la prima a Roma », attacca Migliore. Ma l’eurodeputato non la fa passare: «I candidati a cui fai riferimento hanno preso 3mila voti su 220mila e dalla mattina dopo avete raccontato che il risultato era merito vostro». Ancora: «Il punto politico è che vi siete alleati in 22 comuni coi 5S e strillate dal palco “mai coi 5S”. Volete fare Renew Italia andando con Micciché in Sicilia. Parlate come piccoli Obama ma non avete nulla da dire sul vostro capo che va, pagato, a incensare un dittatore ». E siccome «non è la politica che interessa noi, buon viaggio».
È sconsolato Claudio Velardi, estimatore di Renzi ma convinto sostenitore del matrimonio con Calenda: «Il problema», spiega l’ex spin doctor di D’Alema premier, «è che hanno due temperamenti forti. Insieme dovrebbero battersi per contrastare il finto bipolarismo, lavorare per una legge proporzionale e poi avere entrambi il coraggio di fare un passo indietro, mettersi insieme in una cabina di regia e lanciare qualcuno che possa rappresentare la vasta area moderata». A fregarli, dice Velardi, è il carattere: «Siamo di fronte a due persone intelligenti che, nel misero panorama italiano, pensano di essere meglio degli altri, il che è vero. Il problema è che non hanno i voti. E il loro narcisismo frustato dallo scarso consenso finisce per esaltarsi in questa contraddizione».
Una lettura che però il senatore Matteo Richetti, ex braccio destro di Renzi ai tempi ribattezzato «il Messi della politica» (correva l’anno 2014), confuta alla radice. «A dividerci è la politica. Il leader di Iv vuol fare un partito con un po’ di capi bastone, portatori di preferenze, che gli assicurino la prospettiva di superare la soglia di sbarramento. Azione mira invece a superare la doppia cifra grazie al patrimonio di serietà e credibilità che Carlo esprime e qualcun altro si è invece giocato». Richetti non ha dubbi: «Azione intende rafforzare il suo progetto, in maniera inclusiva, non sciogliersi in un partito nuovo solo per aggiungere qualche pezzetto. L’Italia non chiede la C di centro ma di coraggio e coerenza». Stay tuned . Il film non è ancora finito.
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